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giovedì, Aprile 25, 2024

“Lucca è come una dea”, in un libro introvabile la testimonianza dell’amore di Mario Tobino per la città

Mario Tobino è certamente apprezzato – giustamente – per i suoi grandi capolavori, da “La brace dei Biassoli” a “Le libere donne di Magliano” attraverso “Lungo la spiaggia e di là dal molo” tanto per citare i più famosi.

Ma per capire fino in fondo la scrittura del medico-scrittore non ci si può e non ci si deve fossilizzare su questi volumi che l’hanno reso famoso, perché è necessario andare a spulciare brevi racconti nel contesto di libri ormai introvabili in libreria e che, appunto, li raccolgono con titoli che ne prendono a prestito uno solo. Come in “Zita dei fiori” che, oltre al racconto del miracolo di Santa Zita, contiene quel magnifico “Quando una dea mi prende per mano”, in cui nel corso di una giornata di pioggia ed in compagnia dell’amata Giovanna, ripercorre per l’ennesima volta le strette strade di Lucca sotto l’incombente presenza delle torri e degli antichi palazzi che ne fanno la storia. E questo a dimostrazione che qui si è saputo conservare le origini contrariamente a Viareggio che tutto ha distrutto, o quasi. Come l’alberato “piazzone” sul quale giocava da ragazzo.

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Di questo splendido racconto ne vogliamo estrapoliamo alcuni passaggi, che più degli altri non solo esaltano la bellezza di Lucca (per lo più sotto la pioggia), ma anche il suo stato d’animo estasiato nei confronti di una città che parla nelle pietre e nei marmi secolari di un antico passato che non è stato scalfito dai secoli.

“Oltrepassammo l’arco medioevale di Corte Pini, gola di un gufo, e fummo in via Buia. Anche questa era in attonito silenzio. Penetrammo nel Fillungo. Fu qui che capii, ebbi la certezza che Lucca mi aveva preso per mano, era scesa tra noi, era una dea”. E poi: “Era Lucca che mi voleva elargire questo dono? Davvero me lo meritavo? Mai mi era apparsa così intatta, fresca, bella, regina. I secoli le ballavano intorno quali fanciulli……..e poi fummo davanti alla Cattedrale, a San Martino, la facciata con una selva di colonnine. Ancora una volta udii le invocazioni di tutti coloro che in anni lontanissimi, lontani, più a noi vicini, erano passati davanti a lei”.

Infine, dopo aver raggiunto l’abitazione di coloro che dovevano andare a trovare, ecco la conclusione del racconto in perfetto stile tobiniano: “Naturalmente mi guardai bene di narrare come si era svolta la visita, che Lucca aveva preparato la città vuota, per noi, per me, per la Giovanna. Stetti bene in guardia a non lasciarmi sfuggire che Lucca mi aveva preso per mano. Con un lucchetto mi serrai la bocca. Se mi sfuggiva, se svelavo che Lucca è una dea, col fatto che sono stato per quaranta anni medico di manicomio, figuratevi se non mi davano per matto”.

A questo punto ci domandiamo se è esistito uno scrittore che ha descritto Lucca con parole come queste che sanno quasi di poesia. Che Mario Tobino fosse innamorato di Lucca lo sapevamo, ma che lo esprimesse in questo modo in soltanto sei delle 214 pagine del libro, è stata una piacevolissima sorpresa. Quindi un racconto che nella sua brevità è suggestivo quanto “Lungo la spiaggia e di là dal molo” che per descrive la Viareggio che fu e che è stata ce ne vogliono 214. Ma in in “Quella dea che mi prende per mano” – estrema facoltà di sintesi – Lucca è quella che fu, che era, che è e che sempre sarà.
Mario Pellegrini

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