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venerdì, Novembre 22, 2024

Nessuno come Tobino ha raccontato la Viareggio di un tempo. L’omaggio in “Lungo la spiaggia e di là dal molo”

Leggendo Mario Tobino molto spesso sembra che il tempo non sia passato. L’immediatezza della sua scrittura fa infatti diventare, se non attuale, quanto meno dietro l’angolo fatti, personaggi e cose del passato; un passato che per la Viareggio di oggi è come tornare fanciulla, quando tutte (o quasi) le speranze di quell’epoca sono naufragate nel nulla. Questo soprattutto quando di Mario Tobino si legge della sua Viareggio “Lungo la spiaggia e di là dal molo”. Allorché da una parte si passeggiava con cappello e doppio petto (i signori) e velette e bianchi ombrellini da sole (le signore), mentre dall’altra si costruivano barche e soprattutto quei “barcobestia” che venivano riconosciuti da lontano, soprattutto nei porti stranieri. Per Mario Tobino questo titolo rimanda quindi alla Viareggio della navigazione a vela e al pane duro dei marinai e dei lavoratori della Darsena: calafati, maestri d’ascia, funai, rammagliatori e rammagliatrici di reti.

Un libro, in sostanza, che invitava e invita tuttora ad una sua attenta rilettura, ed a fare conseguentemente alcune considerazioni su questo lungo racconto della memoria, avente per oggetto una città che non c’è più, e che quasi si stenta a credere possa essere esistita. Lontana anni luce dal contesto urbanistico e sociale descritto col cuore – “in te son nato, in te spero morire” – la Viareggio di oggi non sembra neppure figlia illegittima di quel “paese” in cui chi non andava per mare, era semplicemente un “terrazzano”. Una persona, cioè, che poco o niente era in grado di capire la mentalità di chi stava mesi e mesi lontano da casa, o di chi per mesi e mesi ne attendeva il ritorno o, purtroppo, il non ritorno.                                   

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Quando “Lungo la spiaggia e di là dal molo” fece la sua prima apparizione in libreria diversi personaggi che sembrano uscire – come ancora fossero vivi – dalle pagine di Tobino (Tistino, Natino, la Ceina, gli Antonini (famiglia di leggendari capitani) c’era ancora qualcuno che li aveva conosciuti, anche se la scure della seconda guerra mondiale aveva eliminato le ultime illusioni sia sulla navigazione a vela che sulla struttura edilizia. Pertanto leggere o rileggere oggi questo libro che parla di una Viareggio che non c’è più, e che nessuno ovviamente ricorda se non attraverso il sentito dire, o per aver letto ciò che della sua storia hanno scritto Francesco Bergamini e Paolo Fornaciari – già conservatori del “Centro documentario storico comunale” – è pertanto come andare alla ricerca del tempo perduto, di una dimensione onirica e fantasmagorica di una realtà che soltanto il suo autore è capace di estrapolare da un contesto sociale fatto di lunghe attese, sacrifici, lacrime e sangue.

Il rientro di un barcobestia

Questo perché come “figlio del farmacista” abitava su quel “piazzone” che da ragazzo vide deturpato per la costruzione del “mercato nuovo”, dopo che vi fossero dati alle fiamme gli autocarri militari inviati a Viareggio con la truppa per sedare la rivolta del 2 maggio 1920. Una rivolta che per tre giorni isolò la città dal resto d’Italia e che fu banalmente causata da un risultato calcistico di parità, ritenuto ingiusto dalla “tifoseria” locale perché decretato dall’arbitro in una partita contro l’acerrima nemica: la Lucchese.  Ebbene, anche queste “tre giornate rosse” – così definite per i risvolti politici che subito assunsero – in cui purtroppo vi furono alcuni morti e diversi feriti, nelle pagine di Tobino assumono dei contorni narrativi che ne fanno un semplice seppur tragico episodio. Descritto cioè come appartenente ad una realtà di cui in un certo senso era necessario scusarsi, in quanto venuto ad alterare un ambiente che con la violenza aveva poco o nulla da spartire.

Ciò che in questo libro assume invece dei connotati ben precisi, è l’antifascismo ancestrale di Mario Tobino, anche se sempre espresso in termini piuttosto sfumati, ma quanto mai precisi nell’indicare da che parte stava la ragione. Infatti ne è probante e illuminante esempio il contenuto del capitolo “Andasti, o giovinastro, al gran veglione”, che riprende il titolo dell’omonimo carro allegorico del carnevale 1924. Nella figura di questo personaggio debosciato, visualizzata dopo una nottata passata all’insegna del divertimento più sfrenato, l’autore vi vede l’ultimo e disperato atto di libertà prima della notte ventennale. “Fu questo il più bel carnevale che io mi ricordi, il più sincero, un addio a tutto un periodo”. Così Mario Tobino, senza proclami e senza paroloni, fa capire il suo stato d’animo per quanto sarebbe avvenuto poi, quando anche il carnevale avrebbe perduto il suo spirito anticonformista per allinearsi – volente o nolente – alle direttive del regime.

“Lungo la spiaggia e di là dal molo” non è quindi soltanto un canto – meglio parlare di un epitaffio – ad una città che l’autore ebbe modo di assistere alla sua inesorabile trasformazione, ma è anche e soprattutto un omaggio ad una popolazione e al suo modo di pensare e di agire. Tanto da fare di Viareggio qualcosa di unico e irripetibile, soprattutto per il lavoro intorno a quelle imbarcazioni a vela che ebbero modo di farsi conoscere ed apprezzare anche oltre lo stretto di Gibilterra; “quella è una barca di Viareggio!”.

Mario Pellegrini

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