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martedì, Ottobre 1, 2024

La politica industriale europea al centro dell’assemblea di Confindustria Toscana Nord. Le richieste delle imprese

Oggi pomeriggio a Prato si è tenuta l’assemblea dei soci di Confindustria Toscana Nord, il più importante appuntamento istituzionale dell’associazione. Dopo la parte privata, si è svolto l’incontro aperto sul tema “Quale politica europea per le imprese” che ha toccato un nodo cruciale, molto sentito anche dalle industrie del territorio soprattutto su temi come l’ambiente, l’energia, le politiche monetarie. Ad aprire i lavori è stato il presidente di Confindustria Toscana Nord Daniele Matteini, cui è seguito l’intervento del direttore del Centro Studi Confindustria Alessandro Fontana. Durante l’assemblea si è collegato in video il vicepresidente del Consiglio dei ministri e Ministro degli affari esteri Antonio Tajani. Infine il presidente di Confindustria Emanuele Orsini è stato intervistato dalla notista politica del Sole 24 Ore Lina Palmerini.

Riceviamo e pubblichiamo la relazione del presidente Matteini.

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Il tema “Quale politica europea per le imprese” che abbiamo scelto per questa Assemblea nasce dalla convinzione che la nostra Europa stia vivendo un momento molto delicato, forse decisivo per la sua sopravvivenza, ma anche fondamentale per la sorte delle realtà nazionali che vi aderiscono. Un momento in cui gli organi usciti dalle urne il giugno scorso sono ancora in fase di avvio, nel segno di una almeno parziale continuità formale in un contesto mondiale che negli ultimi anni ha vissuto e sta vivendo crisi epocali. Un momento in cui il ruolo dell’Italia, pur con l’importante incarico di una vicepresidenza esecutiva della Commissione, è da costruire. Un momento, infine, in cui i temi economici sono centrali come non mai: forse solo l’introduzione dell’euro ha puntato i riflettori sull’economia europea più della fase attuale.

L’intervento di Daniele Matteini

Alla base di tutto la competitività

“Far crescere la competitività dell’Unione Europea è necessario per riaccendere la produttività e sostenere la crescita in questo mondo che cambia”: non sono parole mie, è una citazione dal recente rapporto di Mario Draghi che ha come tema appunto la competitività. E’ un’affermazione lineare, semplice, perfino ovvia, ma forse tutt’altro che scontata se dai vertici dell’Unione Europea si è sentito il bisogno di promuovere uno studio del genere. L’economia europea arranca, anche e forse soprattutto in alcune delle sue locomotive nazionali: e quando l’economia non va come vorremmo mancano le risorse per le attività a beneficio della collettività, da quelle di base alle più alte e qualificanti. Bisogna correre ai ripari, almeno per quanto è possibile alla politica economica; altri aspetti, in questi tempi di guerre alle porte e di tensioni internazionali, attengono alla politica tout court e alla diplomazia. I condizionamenti che provengono dalla situazione geopolitica sono forti: occorre tenerne conto, considerarli un importante fattore in gioco ma anche ragionare in termini di “business as usual” e lavorare sui fondamentali dell’economia. Ridurre il gap tecnologico con Stati Uniti e Cina; tenere assieme decarbonizzazione, energia a prezzi abbordabili e competitività; ridurre la dipendenza da mercati extraeuropei spesso non affidabili sono i capitoli su cui lavorare. Lavorare, e questo è fondamentale, con realismo e pragmatismo, guidati da principi etici irrinunciabili, ma da declinare con la saggezza di chi conosce il contesto in cui si muove.

Economia come fattore anche del consenso interno

L’ideale europeo non è un dato così acquisito come piacerebbe credere a molti di noi. Non è il caso di soffermarsi qui e ora su un tema delicato e complesso come questo, ma è evidente che l’europeismo e il sovranismo vivono oggi una dialettica particolarmente tormentata. I temi economici – dalle opportunità di crescita offerte dalle sinergie continentali alla distribuzione dei fondi destinati alla coesione e allo sviluppo – possono essere decisivi per sostenere l’idea di un’Europa unita e solidale. Anche i temi finanziari e monetari, ricondotti alle politiche della Banca Centrale Europea, vanno letti in questa ottica. Indipendentemente da quale sia la famiglia politica europea nella quale si riconoscono, tutti coloro che credono nell’Europa dovrebbero riconoscere nell’economia – un’economia, sana, innovativa, competitiva – un cemento essenziale per consolidare il consenso verso un’integrazione profonda e irreversibile. Chi invece, e non sono pochi, nell’Europa non crede, non può non riconoscere che comunque è questo il contesto in cui operiamo: meglio funziona, almeno sul piano economico, e meglio è per tutti.

La sindrome dei primi della classe

La nemica forse principale dell’identificazione degli europei con le istituzioni dell’Unione è quella che chiamerei la sindrome dei primi della classe. Le istituzioni europee vogliono fare del nostro continente una fiaccola per il resto del mondo, e in questo obiettivo c’è dell’ambizione senz’altro pregevole. Ma il confine fra l’ambizione e il velleitarismo è qualche volta molto sottile; per voler essere i primi della classe può accadere di farsi molto male. L’esempio più evidente sono le regole in tema di ambiente e sostenibilità, quel Green Deal i cui eccessi sono stati opportunamente stigmatizzati dal presidente Orsini nella recente assemblea di Confindustria. Sia chiaro: il percorso verso la sostenibilità è sacrosanto, è un impegno sul piano etico e può essere anche una straordinaria opportunità di sviluppo, sia sotto il profilo puramente commerciale – dato il crescente interesse dei mercati più evoluti per prodotti green – sia come stimolo allo sviluppo di nuove tecnologie e di processi produttivi alternativi a quelli attuali. Se però la regolamentazione diventa troppo stringente e pletorica, le imprese europee si trovano imbrigliate in vincoli e costi che ne ledono la competitività rispetto ai loro concorrenti internazionali. Giusto, ad esempio, limitare le emissioni, ma se l’Europa genera solo il 6% dei gas serra mondiali, contro il 25% della Cina o l’11% degli Usa, è evidente che limare la quota europea contribuisce ben poco a salvare l’ambiente. Impegniamoci a farlo, certo, ma non massacriamo le aziende per uno “zero virgola” in meno su una quota già esigua. Sostenibilità è anche sostenibilità economica, incompatibile con eccessi di zelo come i programmi di abbandono irrealisticamente precoce dei motori endotermici o con le distorsioni dell’ETS, il mercato delle emissioni di CO2. 

Rispetto a certi accanimenti ideologici sarebbe più efficace provare a incidere sulle scelte di altri paesi usando peso politico e moral suasion, oltre che, quando necessario, un contributo di collaborazione sul piano tecnologico. Quello che succede nelle relazioni commerciali con i paesi extraeuropei è invece, spesso, un’altra cosa, nient’affatto virtuosa: accade che prodotti realizzati in paesi con regole ambientali – e anche sociali, non dimentichiamo mai questo aspetto! – molto meno stringenti di quelle europee vengano importati in Europa e facciano concorrenza sleale ai prodotti europei. I requisiti richiesti dall’Unione Europea per le proprie manifatture devono essere applicati – nella realtà, non solo nelle regole scritte – anche ai prodotti importati, estendendo e rafforzando il sistema dei controlli doganali.

Norme ambientali europee fra eccessi e manchevolezze

Sui temi ambientali l’Unione Europea si dibatte fra eccessi controproducenti di regolazione e viceversa, talvolta, norme che non ci sono. Requisiti ambientali troppo stringenti e indiscriminati per prodotti e sostanze possono per esempio essere incompatibili con il riciclo e rendere impercorribile il recupero di materia: il Regolamento REACH sulle sostanze chimiche dovrebbe tenere conto dell’eventuale presenza di materiali riciclati nel prodotto immesso in commercio. Ferma restando la tutela prioritaria della salute e dell’ambiente, l’applicazione del Regolamento REACH dovrebbe inserirsi nel quadro della valutazione complessiva degli impatti ambientali, senza automatismi inflessibili su singoli parametri.

Regole fin troppo rigide da un lato, quindi, ma anche assenza di regole, o difficoltà a fissarne di efficaci, dall’altro: sono esempi di questa seconda condizione l’End of Waste, vale a dire i criteri per stabilire quando uno scarto cessa di essere un rifiuto; oppure gli incentivi all’utilizzo dei sottoprodotti.

Siamo a Prato e mi pare giusto citare casi legati al tessile, dove proprio nella definizione dell’End of Waste esistono criticità importanti: le bozze che circolano non tengono conto della virtuosa tradizione di riciclo del distretto pratese nella sua articolazione che investe un’intera filiera. Criticità anche per l’introduzione nella moda di sistemi di responsabilità estesa dei produttori (EPR) già esistenti per altri settori: sistemi che rischiano di tagliare fuori la filiera tessile dalla loro gestione. Anche lo sviluppo della direttiva Eco-design richiederebbe per un settore così articolato come la moda le flessibilità necessarie in funzione delle diverse tecnologie di recupero.

Per gli imballaggi, in particolare per settori come il cartario o la plastica, è importante che si esca dalla dicotomia riuso/riciclo caratterizzata da una ingiustificata valorizzazione aprioristica del primo rispetto al secondo: grazie soprattutto a una efficace azione di lobby realizzata dal sistema Confindustria, è stato fatto qualche passo avanti in direzione di una visione più articolata ed equilibrata, ma continua a essere difficile far valere le straordinarie competenze dell’industria italiana nel riciclo.

Le imprese non sono certo indisponibili a far proprio il Green Deal: misure come la tassazione del carbonio alle frontiere, il regolamento sulla deforestazione, la direttiva green sulle costruzioni non sono prive di punti discutibili e di oneri, ma sono state salutate in maniera complessivamente positiva come strumenti per il riequilibrio della concorrenza o come percorsi di qualificazione ambientale delle produzioni europee. Va anche detto che l’Unione Europea fornisce indicazioni corrette per la gestione dei rifiuti nella direzione dell’economia circolare: recupero di materia in primo luogo, se questa non è possibile recupero di energia. Qui da noi, in Toscana, questo percorso non viene accettato e di recupero di energia non si parla. E’ un errore grave, da noi più volte denunciato: quando dall’Europa arrivano stimoli corretti, vanno colti e valorizzati.

Criticità di varia natura a parte, tutti i settori hanno chiaro che l’ultimo miglio, quello della collocazione dei prodotti presso i consumatori, è cruciale per promuovere le produzioni sostenibili. Incentivi? Vantaggi fiscali? Canali preferenziali per le forniture pubbliche che siano più stringenti, applicabili ed estesi di quelli attuali? Bisogna avere il coraggio di ragionare sugli strumenti per, e non è solo un gioco di parole, sostenere la sostenibilità presso i consumatori.

Emanuele Orsini intervistato da Lina Palmerini

Energia, un capitolo strategico

Legato in parte al tema sostenibilità è anche un altro capitolo, quello strategico, sul piano geopolitico oltre che economico, dell’energia. Su questo versante l’Italia è particolarmente bisognosa di supporto e indirizzo, dato il gap di costi con altri paesi, anche europei: un gap che cresce anziché diminuire. Per anni abbiamo calcolato che l’extracosto dell’energia elettrica per le aziende italiane rispetto ai concorrenti europei fosse intorno al 30%: ma lo scorso mese il prezzo elettrico italiano ha sfiorato +60% rispetto alla Germania, superato +40% rispetto alla Spagna ed è arrivato a +135% rispetto alla Francia. Partiamo con un prezzo della materia prima energia già molto più alto degli altri paesi, poi ci aggiungiamo oneri su oneri e questo è il risultato. Non è colpa dell’Europa se abbiamo la zavorra di una bolletta energetica abnorme: la responsabilità è solo di noi italiani! Nondimeno, l’Unione Europea può giocare un ruolo determinante per creare un mercato unico e integrato del gas, progressivamente decarbonizzato e armonizzato quanto a tariffe; per completare l’integrazione del mercato dell’energia elettrica disaccoppiando il prezzo di quella proveniente da fonti rinnovabili dai mercati di breve termine e dal prezzo del gas naturale; per sostenere le energie rinnovabili, il nucleare, la neutralità tecnologica e la diversificazione delle fonti energetiche.

Le politiche della BCE: occorre più coraggio

Accanto all’Unione Europea, l’altro grande attore continentale è la Banca Centrale Europea. Un’istituzione di importanza decisiva che talvolta ci lascia con la sensazione di mancanza di coraggio. Non sempre, beninteso: ma il “whatever it takes” durante la crisi del debito sovrano è un ricordo lontano e il recentissimo taglio del costo del denaro di un solo quarto di punto pare dettato da una cautela eccessiva, dato che l’inflazione sta comunque arretrando e che è evidente un bisogno fortissimo di sostenere investimenti e consumi. Un bisogno che un intervento così limitato lascia parzialmente insoddisfatto.

L’Europa delle potenzialità

Ma quindi questa Europa – l’Unione Europea con i suoi 27 paesi, l’Eurozona a 20 paesi con la sua Banca Centrale, questa strana entità di 450 milioni di cittadini di paesi fra i più sviluppati del mondo, con 24 lingue ufficiali, guidata da un sistema istituzionale piuttosto singolare, animato da idealità talvolta autolesioniste e noto per la sua propensione alla burocratizzazione, quando invece l’obiettivo dovrebbe essere la semplificazione – ebbene, questa Europa è solo una bizzarria della storia? E’ un problema o è un’opportunità? Direi che è una straordinaria potenzialità, la cui finalità più alta ed effettivamente realizzata – mantenere la pace in un continente che ha viste troppe guerre – si fa apprezzare soprattutto adesso che la guerra ce l’abbiamo a un passo dai nostri confini. Dal punto di vista economico il mercato unico è stato un risultato storico e l’euro uno strumento che ha avuto e ha le sue ombre ma di cui non sapremmo più fare a meno. La redistribuzione dei fondi europei comporta un’imponente circolazione di denaro: la Toscana per la Programmazione 2021-2027 ha a disposizione 2,3 miliardi fra fondo di sviluppo regionale (FESR) e fondo sociale (FSE), cui si aggiungono ulteriori risorse con finalità più specifiche. Un piano straordinario come il PNRR porta in Italia quasi 200 miliardi di euro, la quota più alta fra i paesi della UE.

A saperle cogliere con efficienza ed efficacia, sono tante le opportunità che può darci l’Europa. Una Europa che però deve imparare ad amare di più la sua industria, la sua manifattura, a tutelarla e valorizzarla, perché essenziale per generare ricchezza e sviluppo. Deve cambiare passo, ha detto il presidente Orsini, ed è vero: deve correre di più quando si tratta di creare condizioni favorevoli alla crescita, viceversa frenare l’impazienza verso il raggiungimento di obiettivi nobili ma irrealistici.

Il passo giusto per uno sviluppo diffuso, innovativo, concreto, competitivo: questo è il presupposto per una efficace politica industriale europea.

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