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lunedì, Novembre 25, 2024

Attenzione alla deglobalizzazione finanziaria. Il monito del professor Roberto Ruozi

Riceviamo e pubblichiamo in anteprima un articolo del professor Roberto Ruozi che sarà pubblicato sul prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia e finanza diretto da Gianfranco Antognoli. L’autore è professore emerito dell’Università Bocconi della quale è stato Rettore dal 1995 al 2000. Inoltre ha insegnato nelle Università di Ancona, Siena, Parma, Parigi (Sorbona) e al Politecnico di Milano. È stato presidente del Piccolo Teatro città di Milano e del Touring Club Italiano.

Per rendere liberi i movimenti internazionali di persone, merci, servizi e capitali è stata combattuta una forte battaglia, specie nei primi decenni del secondo dopoguerra. Da qualche tempo sembrava essersi conclusa in modo vittorioso e la cosiddetta globalizzazione dell’economia e della finanza sembrava concreta e irreversibile e aveva prodotto conseguenze importanti e positive sui singoli Stati, sul mondo nel suo complesso e sui settori economici più disparati.

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In particolare, la globalizzazione dei mercati finanziari, resa possibile sia dalla volontà della politica sia dai mezzi tecnologici che l’hanno sostenuta, ha prodotto quanto meno i seguenti effetti di grande rilievo: l’aumento dell’efficienza dei mercati coinvolti e delle possibilità di investimento tra i vari paesi e tra i vari settori, il più grande impegno degli investitori internazionali, la diversificazione dei loro portafogli, la mitigazione dei rischi associati a singoli mercati o paesi, l’aumento della liquidità, la maggiore stabilità dei prezzi delle attività finanziarie, la riduzione del costo dei finanziamenti e così via.

In realtà, tuttavia, le cose non sono state solo rosee in quanto essa ha portato anche: una maggiore instabilità finanziaria globale, una limitazione alle sovranità nazionali, l’aumento del rischio sistemico, una concentrazione del potere dei più grandi intermediari mondiali e aggravamento delle disuguaglianze tra paesi e operatori economici ricchi e poveri. In particolare, le piccole e medie imprese sono sembrate in tale contesto piuttosto sfavorite.

La valuta assolutamente dominante per il buon funzionamento della globalizzazione è stata il dollaro, al quale si è aggiunto in un secondo momento l’euro. La dominanza monetaria ha dato agli operatori degli Stati Uniti vantaggi economici non indifferenti e al loro governo un potere anche politico di tutto rispetto.

Con gli sconvolgimenti prodotti dalla grande crisi del 2007–2008 sono cominciate a sorgere situazioni non favorevoli né alla continuazione della globalizzazione finanziaria né a quella della connessa globalizzazione dell’economia in generale. Tali situazioni erano associate a mutamenti di rilievo nei rapporti politici fra i grandi protagonisti della scena internazionale e i loro alleati, con lo scoppio di guerre che si ritenevano archiviate in un passato che invece si è ripresentato in maniera catastrofica e con aspetti a dire il vero contrastanti circa il ruolo assoluto e relativo di detti conflitti negli sviluppi economici settoriali, nazionali e internazionali. La tecnologia, che ha tanto e continuamente condizionato la globalizzazione, è diventata tuttavia disponibile a quasi tutti gli operatori aumentando quindi la loro capacità concorrenziale economica e finanziaria.

La lista degli avvenimenti che hanno contribuito (e che stanno ancora contribuendo) a ridurre il livello di globalizzazione finanziaria è lunga e anche difficile da redigere. A titolo puramente esemplificativo e seppur in ordine sparso ricordo: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e la guerra che ne è conseguita, l’azione dei ribelli yemeniti nel Mar Rosso che ha reso complessa e costosa la navigazione commerciale in quell’area, l’aumento della conflittualità politica ed economica fra gli USA e la Cina che sta cambiando la natura dei mercati di alcuni prodotti industriali strategici per lo sviluppo, l’imposizione di sanzioni da parte dei paesi occidentali a nazioni varie come la Russia e l’Iran e l’introduzione di dazi e di veti all’importazione e all’esportazione molto elevati, la riduzione dell’importanza delle riserve delle banche centrali espresse in monete dei G7 a favore di altre valute e dell’oro, la funzione di intermediazione fra USA e Cina per la produzione di beni di varia natura svolta da paesi come Messico, Vietnam, Indonesia, Marocco, Sudafrica e via dicendo, il congelamento delle riserve russe e il blocco dell’attività degli oligarchi, l’aumento dei pagamenti effettuati in valute diverse dal dollaro (come ad esempio quella cinese), il potenziamento di una serie di borse valori locali come Singapore, Hong Kong, Tokyo, Shanghai, Pechino e Dubai, lo sviluppo di emissioni statali di obbligazioni in valute locali (come ad esempio quella indiana), l’aumento della partecipazione al PIL mondiale dei 10 più importanti paesi emergenti (passata in pochi anni dal 12% a più di un terzo), la nascita di nuove reti per i pagamenti internazionali e lo sviluppo delle valute digitali, con particolare riferimento a quelle emesse da banche centrali come quella cinese, che affiancheranno quelle tradizionali sottraendo loro rilevanti quote di mercato e via dicendo.

Insieme a tanti altri fattori più o meno simili, quanto descritto gioca quindi nel senso della deglobalizzazione dei mercati finanziari, che sono infatti diventati sempre più frammentati e rischiano di non essere più così forti ed efficienti come nel passato. Gli operatori economici e finanziari cominciano a rendersene conto e stanno facendo di tutto per trovare nuove strade per ritrovare in questo nuovo contesto vantaggi simili a quelli che avevano fino a poco tempo fa. Anche gli USA stanno reagendo e il ruolo del dollaro, benché oggetto di attacchi sempre più forti, è ancora ben solido.

Dobbiamo quindi preoccuparci oppure no? Credo che preoccuparsi sia bene, ma, al contempo, ritengo che agire per trovare nuovi spazi per migliorare i mercati finanziari così frammentati come sono quelli attuali non sia impresa semplice. Il problema non è infatti più soprattutto tecnico, come ai tempi in cui si pose nelle fasi iniziali dello sviluppo della globalizzazione finanziaria, bensì essenzialmente politico e quindi dipendente da fattori che gli operatori economici e finanziari possono condizionare solo marginalmente. Nel complesso, comunque, si può concludere che, come anche ricordato in un interessante articolo pubblicato nell’Economist dell’11.5.2024, è indubbio che la frammentazione di cui si parla, pur con qualche non trascurabile aspetto positivo, ha e avrà ancora implicazioni essenzialmente negative per l’economia mondiale. Speriamo quindi che non duri troppo e che possa tornare a lasciar spazio alla globalizzazione a lungo perché, piaccia o meno, la libertà di movimento di capitali che pensavamo di aver strutturalmente acquisito e che invece rischia di scapparci di mano, a parità di altre condizioni, offre agli investitori maggiori opportunità e alle imprese più ampie e più economiche capacità di finanziamento. Inoltre, i ricordati fenomeni di frammentazione – e altri che non abbiamo citato ma che purtroppo esistono – rischiano di intorbidire ancor di più non solo il clima economico internazionale ma anche e soprattutto il sempre più conflittuale clima politico, con effetti che, pur non prevedibili, è ragionevole pensare che saranno negativi. Maggiori difficoltà e più costringenti riduzioni nel movimento dei capitali internazionali possono infatti provocare conseguenze dannose sul prezzo delle attività finanziarie, limitare la stabilità dei mercati e ridurre le possibilità di diversificare adeguatamente i portafogli degli investitori. Occorre quindi cercare di limitare questi eventi ma questo, come detto poco sopra, sarà soprattutto compito delle autorità politiche, sulle quali non si può sempre contare, ma che -anche nel loro stesso interesse – non possono far finta di niente. “Uomo avvisato, mezzo salvato” diceva un antico ma sempre attuale proverbio.

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