In occasione della pandemia molte aziende ed enti pubblici hanno fatto ricorso allo smart working, avviando una rivoluzione nei sistemi organizzativi e gestionali interni. Ma come deve essere gestita questa trasformazione? La questione sarà affrontata sul prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli. Nell’articolo – intitolato “Smart working: facciamo il punto”, che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – l’esperto Lorenzo Bassi, Partner della società milanese di consulenza organizzativa Carter & Benson, analizza le problematiche legate alla diffusione appunto dello smart working.
Negli ultimi due anni, abbiamo visto crescere questa nuova modalità di lavoro in risposta a una situazione nella quale limitare i contatti tra le persone era diventato fondamentale per contenere il diffondersi della pandemia e allo stesso tempo garantire la continuità economico-produttiva delle aziende. Aziende pubbliche e private in tutti i settori hanno dovuto metter mano ai modelli organizzativi e gestionali, talvolta accelerando o affinando processi già in atto, talvolta cominciando ex-novo il percorso verso una trasformazione necessaria per la “sopravvivenza” dell’azienda stessa. All’insegna della flessibilità, della responsabilità, dell’autonomia, della fiducia, della gestione libera del tempo e del lavoro per obiettivi, lo smart working, perché sia tale, implica un profondo cambio culturale e di mindset da parte di tutti coloro che vivono in azienda a qualsiasi livello. Ne parla Lorenzo Bassi, Partner di Carter & Benson, società milanese di Consulenza Organizzativa e Head Hunting.
Il mercato di oggi è complesso, una sfida per gli HR manager
La condizione socio economica in cui ci troviamo oggi presenta un mercato molto fluido e ancor più competitivo. La situazione è complessa e mantenere la leadership è una difficile sfida. La logica di sviluppo delle aziende, in questo contesto non può che passare da un approccio più equo ed etico del business, in grado di raccogliere le necessità e gli stimoli provenienti dall’esterno e dall’interno dell’azienda per rispondere meglio alle esigenze delle persone e più in generale di una società in profonda trasformazione. L’obiettivo delle imprese in questi tempi non è solo stare sul mercato, ma creare quelle condizioni utili per trattenere e attirare i talenti, che sono poi la vera ricchezza delle aziende.
All’insegna della flessibilità, lo smart working, che abbiamo visto crescere in questi ultimi due anni, è stato una delle risposte per far fronte alla situazione emergenziale. Una modalità di lavoro che molte volte è stata interpretata in modo non corretto da parte delle aziende che hanno inserito troppi elementi di controllo del dipendente, limitandone la libertà di gestione autonoma e responsabile del proprio lavoro, ma che comunque ha impattato sul quotidiano dei dipendenti creando nuove aspettative e nuove abitudini grazie alla possibilità di testare i vantaggi derivanti da un più equo balance tra tempo dedicato al lavoro e quello dedicato alla vita privata. Contestualmente questa situazione ha impegnato le imprese nella ricerca di nuovi equilibri fra lavoro in presenza e a distanza e gestione dei team nell’ottica della massima condivisione delle informazioni e della collaborazione.
La recente ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentata il 20 ottobre, conferma che in Italia, nel 2022, lo smart working è presente nel 91% delle grandi imprese italiane (era l’81% nel 2021), mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese. Mentre nelle PMI si registra un leggero calo (dal 53% al 48% con una media di 4,5 giorni al mese), così come è diminuita la diffusione dello smart working anche nella PA (dal 67% al 57%, con una media di 8 giorni di lavoro da remoto al mese) a causa soprattutto delle disposizioni del precedente Governo che hanno spinto a riportare il lavoro in presenza. Lato lavoratori, tra gli on-site worker (che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro), i remote non smart (che hanno la possibilità di lavorare da remoto ma non altre forme di flessibilità), e gli smart worker (che hanno flessibilità sia di luogo sia oraria e lavorano per obiettivi), la ricerca sottolinea che questi ultimi sono quelli con migliori risultati sul piano del benessere generale. Questi dati ci confermano una realtà che, come esperti del settore HR, osserviamo nel quotidiano, ovvero che il lavoro da remoto, se non inserito in un contesto più ampio di flessibilità e revisione dei processi, se non proposto con la reale formula dello smart working non porta grandi benefici né a livello personale né organizzativo.
Nonostante il settore finanziario sia tradizionalmente considerato più restio ad adottare iniziative di lavoro a distanza, è stato tra quelli più rapidi ad applicare le logiche del remote working, rivoluzionando la collaborazione tra i dipendenti e le proprie modalità di lavoro. Una rapidità data anche dal fatto di aver innescato già da prima processi di digital transformation, tenendo conto anche di un aspetto fondamentale quando si parla di lavoro da remoto in questo settore, che è la sicurezza dei dati.
Il new normal. Come lo stanno affrontando le aziende?
Oggi ci troviamo sempre più spesso di fronte a situazioni differenti tra loro in cui lo smart working è ancora una condizione di difficile applicazione. Aziende che dimostrano forti resistenze culturali al cambiamento e in questo momento sono più tentate a un ritorno al passato, richiedendo ai propri dipendenti il rientro in totale presenza. Aziende che propongono un approccio di smart working ibrido, obbligando però i lavoratori a due o tre giorni a casa o in ufficio, soluzione più spesso adottata nel settore bancario. Oppure aziende che scelgono il modello impropriamente chiamato full smart working, che invece è poco più di una formula home working. Poche sono invece le realtà che hanno sposato il concetto più puro dello smart working.
Cosa significa adottare un modello di smart working?
Lo smart working è una forma intelligente di lavorare che necessita di un deciso cambio di mindset. Una virata che non è banale e oltre a richiedere all’azienda un’adeguata infrastruttura IT per gestire il la voro in remoto, implica anche l’abbattimento delle barriere legislative e psicologiche legate al “lavorare secondo orari”, un “allenamento” alla fiducia da parte dei manager per interagire con i team, e un atteggiamento di grande responsabilità da parte del dipendente che deve essere in grado di lavorare in autonomia e per obiettivi.
Possiamo considerare il lavoro davvero “smart” solo quando libero da schemi autoritari di controllo (“ti vedo e quindi so che lavori”) e quando gli strumenti e le metriche per misurare gli obiettivi e l’impatto/apporto aziendale di ciascuna singola risorsa siano efficaci e di valore e considerino sia il merito sia gli aspetti quantitativi e qualitativi delle performance.
In Carter & Benson l’adozione del modello smart working nella sua accezione più vera è una scelta che il nostro CEO, William Griffini, ha fatto parecchi anni fa, quando ancora era un tema affrontato da pochi, e alla quale ha affiancato anche altre azioni di welfare e di social responsibility. Scelte coraggiose che non solo hanno generato ottimi risultati in termini di crescita economica e reputazionale dell’azienda, ma quel che più conta sono gli effetti positivi sul piano dell’engagement e della retention delle persone, senza le quali non avremmo potuto raggiungere gli obiettivi che oggi ci posizionano tra le società leader nell’head hunting e nella consulenza organizzativa.
La Carter & Benson
Nata nel 2003, dalla solida competenza e dalla passione di un Team di professionisti e Manager, Carter & Benson è una società di Consulenza e Headhunting dal respiro internazionale. Diventata nel 2021 Società Benefit, guidata da William Griffini, CEO dell’azienda, promuove da sempre innovazione nella cultura d’impresa, valorizza le risorse umane e individua Manager di potenziale, supportando aziende italiane ed estere leader di mercato, o di spicco nei rispettivi mercati. Tre le divisioni: Executive Search per la ricerca diretta e la selezione dei migliori Top Manager; Middle Management per la ricerca diretta e selezione di Quadri, Neo Dirigenti e posizioni manageriali Middle; Strategy per il supporto al Cliente su progetti a forte impatto aziendale attraverso attività di Consulenza Organizzativa, Start-Up Advisory, Intelligence, Employee Engagement & Experience, Corporate Coaching e HR Advisory. Nel corso della sua attività, Carter & Benson ha portato a termine 2.420 progetti con più di 650 aziende Clienti sviluppando specifiche competenze nei seguenti settori: Digital & Technology, Telco, Media & Entertainment, Consumer, Hospitality & Leisure, Financial Institutions & Services, Government & Non-Profit, Healthcare & Medical Devices, Industrial & Metals, Automotive, Transportation & Logistics, Utilities, Private Equity, Business & Professional Services, Engineering and Construction, Public Sector, Retail, Start-up/Scale-up, ESG.
La membership con IMD International Search Group proietta Carter & Benson in una dimensione internazionale. IMD è un’organizzazione di selezione globale tra le Top 20 nel mondo, con consulenti e uffici in America, Africa, Asia-Pacifico, Europa e Medio Oriente. Essere parte di questo network così capillare permette a Carter & Benson di rispondere alle richieste di ricerca di Top Manager delle società internazionali, garantendo un accesso immediato ai migliori talenti che operano nell’economia globale. Significa anche lavorare in conformità agli altissimi standard etici e qualitativi di IMD: onestà e integrità; professionalità e qualità; approccio imprenditoriale innovativo, veloce, flessibile; teamwork e condivisione delle conoscenze. L’azienda è da sempre impegnata in progetti solidali. Da oltre 15 anni, infatti, sostiene diverse Onlus tra cui La Fanciullezza, Telefono Azzurro, Save the Children, Vidas, San Patrignano, Sport Senza Frontiere e RunForEmma & Friends.