Ma la nostra società ha ancora bisogno del carnevale? Un confronto fra il passato e il presente della festa, dalle sue origini ad oggi con tutti i suoi cambiamenti nel corso dei secoli sarà pubblicato sul numero di marzo di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli. Nell’articolo che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – intitolato “Il carnevale come antica terapia” – il giornalista, scrittore, regista tv Adolfo Lippi risponde al quesito in modo affermativo in quanto la pazzia carnevalesca deve essere ancora un grande sfogo salutare.
Ma la nostra società ha ancora bisogno del carnevale? Il carnevale, senza andare troppo a ritroso alle “dionisiache” greche, fu nel 1600 “leccardo, pappardo, trincatore, bevitore, pappatore, diluvione, sguflone, con mille ghiottonerie, leccarle, papparle, tracannarle, ruberie, golosità e ogni sorta di malizie” avendo in odio e contestazione estrema “i beni degli uomini, leggi, decreti, statuti, ordini, condizioni”. Con questa prosa lo descrisse un famoso cantastorie e giullare bolognese, e anche in tempi recenti, a partire da fine Ottocento, molto si slabbrò nell’uso di vini, tordellate, mascherate ambivalenti, licenze erotiche. E ben lo studiò un insigne letterato, Piero Camporesi, notissimo e raffinato filologo, storico e antropologo, in un celebre libro, “La maschera di Bertoldo”.
Interi capitoli di questo libro sono dedicati alla filosofia portante il carnevale. Ma è già a tutti noto come esso sorgesse in tempi moderni, tollerato finanche dalla Chiesa, come pausa di scapricciamento, soprattutto per il popolino asservito e malnutrito, prima della estenuante Quaresima. Sicché fino al “pentimento delle ceneri”, tradizione oramai dimenticata, uomini e donne potevano per almeno un mese abbondante dedicarsi ai riti dei mascheramenti, della satira grassa, delle folli libagioni, facendo dei villani volgarissimi dei re, delle megere le principesse regnanti, tra balli scostumati e banchetti assordanti. Così l’economia bassa riprendeva fiato, le taverne nei rioni estremi si riempivano, la diffusa baldoria faceva dimenticare, in specie nei paesi nordici, l’austerità di costumi e la stretta finanziaria.
Era il carnevale un’anticipazione della primavera. Nelle campagne si scodellava il lardo e si vedevano rifiorire le mimose. Trionfava il rovescio. La stramberia e la balordaggine diventavano un’arma acuta di difesa contro i nobili, i padroni, il clero. Nella sfilata del carnevale e nei teatri di piazza l’irrisione trasgressiva era di obbligo, nessuno osava, in quel mese, perseguitarla o proibirla, perché il riso sollevava dalla miseria della condizione umana e illudeva sull’uguaglianza fisiologica dei potenti coi poveri. Come se il carnevale, ai confini della bella stagione a venire, potesse immaginare se non creare quel mondo nuovo dove avrebbero regnato.
Ma oggi in quali condizioni siamo? Intanto i cambiamenti climatici ci hanno imposto mesi e mesi di continua buona stagione con temperature affliggenti quasi estive. La diffusa siccità è arrivata quasi al Natale, le nevi si son cominciate a vedere a fine di gennaio. Il carnevale, nel suo tradizionale periodo, non lascia sospirare mesi più caldi perché di caldo se n’è già avuto in abbondanza. È quindi abbastanza superata l’attesa spasmodica alla primavera anche perché, grazie agli idrocarburi, non viviamo più in stamberghe ghiacce. Allora manca, è evidente al carnevale, la spinta a “star fuori”, a tracannare fiaschi di vino, a consumare cuccagna per riscaldare il sangue.
E le maschere? Una volta la maschera era rigenerante. La stracciona si poteva immedesimare in regina, l’idiota poteva nobilitarsi vestendo diverso e camuffando il volto. Poteva sorgere e sorgeva un linguaggio carnevalesco, dissacrante, buffonesco, produttivo di comico con effetti variegati e deformati. Ci si liberava. Ma adesso basta un qualunque “Gay pride”, senza obbligo di stagione, per fare gioco, per trasformarsi e parodiare il maschio in femmina la femmina in maschio. Eppoi si va così anche nei salotti televisivi e la parodia ha preso il posto del discorso razionale. Non parliamo poi dell’uso del cibo. Basterebbe rileggersi il francese Rabelais dove il contrasto carnevale-quaresima si incentra tutto sull’ingestione pantagruelica di cibi, ecatombe di volatili, stragi di galli, spiedi di maiali e daini e cinghiali. Ora semmai fa la moda il vegano. E l’imbriacature leggendarie alle quali accennava Pietro Aretino vengono sostituite, nelle discoteche e fuori, dai ragazzi indisciplinati avvezzi al “Gin tonic” o alla birra analcolica.
Eppure si continua a festeggiare il carnevale. Evidentemente la società quotidiana non dà, come non dette mai, piaceri e doni. Si continua nelle guerre sanguinose, nello spadroneggiare dei potenti (ora finanzieri), nelle di visioni feroci tra popoli e razze. Il carnevale, certo, non risolve né risolse mai i contrasti. Però ancora oggi la gente ha bisogno e cerca momenti di spensierata felicità. È un peccato? È una fantasia malata? Ciò che i nostri avi cercarono nel carnevale non deve andare perduto: la pazzia carnevalesca dev’essere il grande sfogo salutare che, come ben scrive Camporesi, reintegri l’equilibrio fisiologico: ci faccia da terapia come un incandescente sogno.