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venerdì, Novembre 22, 2024

Il mito di Shelley a Viareggio. Sereni rievoca il clima politico e culturale della città e lo scontro sul monumento

In occasione del bicentenario della morte del poeta Percy Bisshe Shelley, il professor Umberto Sereni ha rievocato le vicende che portarono alla realizzazione del monumento nel centro di Viareggio e al numero unico realizzato da Lorenzo Viani nel 1922, primo centenario shelleyano. La seconda e ultima parte del saggio di Sereni sarà pubblicata sul prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli. Nell’articolo – intitolato “Per una storia del mito di Shelley: la trama De Ambris-Viani nell’estate del 1922”, che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – lo studioso rievoca il clima politico e culturale della città in quel periodo, nonché le polemiche che accompagnarono la realizzazione e l’inaugurazione del monumento a Shelley.

Viareggio era uno dei luoghi dove si praticava il culto del Cuor de Cuori e la sua storia è stata riferita da Lorenzo Viani che, da giovinetto, si era aggregato a quella compagnia ed era stato iniziato ai misteri shelleyani: “Nella taverna del Prometeo dotti e indotti veneravano Shelley: lo veneravano tanto che quando per tempestose vicende il Prometeo chiuse, ne fecero aprire un’altra che si chiamava addirittura Shelley. I tavernieri erano geldra varia: da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi andavano al gobbo Carnot; santi, manigoldi s’impancavano a quei tavoli. Ceccardo declamava estasiato e Carnot di sull’uscio urlava spavaldamente ai passanti: ‘Alto là! Noi siamo i figli di Prometeo’”.

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Un culto questo che assumeva l’identità di una fede vissuta al punto da imporre ai figli il nome di Prometeo, come facevano Egisto Ghilarducci e Cairoli Caprili che, per non asciare adito a dubbi, battezzava con il nome di Shelley l’altro figlio che gli nasceva il 26 gennaio del 1907. Una significativa testimonianza del culto del titano nell’ambiente di Viareggio, ed era una testimonianza che in questo caso veniva dagli ambienti più elevati della cittadina, la lirica Prometeo composta dal poeta Maurizio Pellegrini che poi avrebbe celebrato con i suoi versi l’erezione del monumento a Shelley.

Attento a non deludere le varie aspettative che si indirizzavano a Shelley, Riccioni nel discorso che tenne per l’inaugurazione del monumento concentrò la sua attenzione sul significato etico-politico della sua opera e della sua vita e per accreditare si appoggiò all’articolo di D’Annunzio del 1892: “Il monumento non è solo un ricordo al poeta inglese che l’Italia amò (…) ma anche soprattutto un omaggio al combattente gentile, per il bene e per la luce, come dice Gabriele D’Annunzio, contro tutti gl’implacabili nemici della specie umana, un omaggio al riformatore preveggente, buono e geniale, che affermò coraggiosamente esservi delle verità, sacrosante verità, a di sopra delle confessioni officiali e degli officiali propositi”.

In verità Riccioni non avrebbe voluto né dovuto essere l’oratore di quella mattinata: per solennizzare la manifestazione aveva pensato a Felice Cavallotti, che non poté intervenire personalmente. Rimediò all’assenza inviando un messaggio che recava la certificazione dell’avvenuta congiunzione tra Viareggio e lo spirito di Shelley e quindi, come voleva Riccioni, stabiliva la sacralità mitopoietica del luogo: “Da oggi laure della Versilia, che ebbero gli atomi delle ceneri di lui, carezzeranno la bella giovanile immagine, quasi il genio tutelare del luogo, compiacentesi eternamente nella poesia e nella natura, e parrà ai poeti d’ogni terra e di ogni lingua, che trarranno ad ispirarvisi, d’intendere ivi intorno, nei sussurri dei canti del Prometeo un fremito arcano della poesia universale-unica anima del mondo che Shelley divinò slanciandola pei cieli, eterna amante, sfidatrice di folgori e nembi, disdegnosa di qualunque viltà, spezzatrice dei ceppi dello spirito umano”.

Le cronache dell’avvenimento riferiscono di una partecipazione di pubblico così esigua che la lista dei presenti si chiudeva appena dopo una decina di nomi. Tra questi Enrico Nelli, l’anima della Croce Verde, le cui notevoli sostanze erano intervenute per risolvere i problemi materiali dell’erezione del monumento Insieme a lui pochi altri che rappresentavano il coté laico-massonico di Viareggio.

Il professor Umberto Sereni

Di ben diversa consistenza e caratterizzazione erano gli uomini che rispondevano alla convocazione shelleyana del settembre 1903. Anche questa volta l’iniziativa era partita da Cesare Riccioni, che la intese come una riparazione alla sconfitta nelle recenti elezioni amministrative quando le divisioni del capo progressista e l’astensione degli anarchici avevano propiziato l’affermazione dei clerico-moderati. Una sconfitta che aveva colpito personalmente Riccioni, costretto a rinunciare alla carica di sindaco che teneva da due anni. Ma la vittoria dei clerico-moderati aveva ben altro significato, mettendo in dubbio l’identità di Viareggio quale luogo del culto shelleyano. Più motivi lo avevano sollecitato a promuovere una nuova mobilitazione shelleyana che intendeva, innanzitutto, come la riaffermazione dell’anima shelleyana di Viareggio e con questa finalità aveva dato vita ad un comitato, facendovi entrare i rappresentanti del composito schieramento laico: dai giovani anarchici del circolo “Delenda Carthago” Lorenzo Viani e Manlio Baccelli, ai repubblicani Eugenio Barsanti, Francesco Luporini e Francesco Zucchetti, ai socialisti Narciso Fontanini e Umberto Giannessi, al radicale Oreste Pietrini, ai meno accessi Alessandro Tomei, Ubaldo Buttrini e Giuseppe Ruggini. Del comitato la presidenza era stata attribuita a Gabriele D’Annunzio, con il quale Riccioni era entrato in una certa confidenza, ed il poeta, secondo il programma diffuso dai giornali, sarebbe dovuto intervenire alla manifestazione come oratore ufficiale. Ma D’Annunzio, accampando irrimandabili impegni di lavoro, declinava l’invito così come facevano altri poeti, da Adolfo De Bosis a Giovanni Pascoli, ai quali Riccioni si era rivolto.

Anche per effetto di queste diserzioni l’iniziativa sfuggiva di mano al suo promotore e prendeva una piega che avrebbe irritato conservatori e benpensanti. A Viareggio, per celebrare il “cantore di Prometeo” si radunava il varo sovversivismo della regione apuo-tirrenica: anarchici, socialisti delle diverse tinte, repubblicani, radicali, framassoni, liberi pensatori che sfilavano in corteo con vessilli, drappi, corone di fiori e bandiere. Per quella manifestazione si erano dati convegno a Viareggio personaggi che gli addetti alla tutela dell’ordine avevano rubricato negli schedari dei soggetti pericolosi: il poeta pisano Gino Del Guasta che si qualificava come “vero figlio di Prometeo”, il tribolato viandante Pilade Salvestrini che vagava per paesi e borgate a profetare l’avvento dell’armonia universale, il poeta apuano Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, riconosciuto shelleyano d’alto rango per effetto del suo incontro con l’ombra del poeta durante una visita alla villa Magni di San Terenzo. Ed insieme a questi tutta una compagnia di agitati e irregolari che non tralasciava occasione per esibirsi. Quella mattina a commemorare il poeta “che aveva fede nella redenzione dell’umano spirito” provvedevano i socialisti Agostino Berenini, deputato di Parma, e l’avvocato Francesco Bianchi di Lucca, noto massone, anch’egli con malcelate ambizioni poetiche, e l’anarchico Pietro Gori, riguardato dai libertari come l’erede del poeta del Liberato Mondo.

Ce n’era abbastanza per far inorridire le vestali fiorentine del Marzocco che di bandiere rosse e di profezie liberatrici non volevano proprio sentirne parlare. Ed ugualmente andavano su tutte le furie i benpensanti de L’Eco di Viareggio che si lamentarono perché quella manifestazione non era stata “vera festa d’arte al divino poeta, ma un’affermazione repubblicana, socialista anarchica”.

Di opposto segno le reazioni di quanti avevano vissuto quella giornata settembrina come l’occasione per dare dimostrazione delle proprie idealità e per verificarne la crescente influenza. Tra questi un ruolo di primo piano era toccava a Lorenzo Viani. L’abbiamo trovato, insieme al compagno Baccelli, tra i membri del Comitato shelleyano ai quali D’Annunzio inviava un messaggio di consentimento. Lo pubblicava in evidenza il numero unico che Riccioni faceva uscire in quella occasione per dare risalto alle testimonianze d’adesione che gli erano giunte. Tra queste merita di essere sottolineata, per la caratura del personaggio, quella di Giacomo Puccini che ci rivela la intensa connessione spirituale che lo teneva legato a Shelley: “Attraverso la nera pineta s’ode nella notte il largo canto del mare ancora pieno di rimpianti del Poeta che seppe darci tutte le musiche della natura”.

Un autoritratto di Lorenzo Viani

Quel numero unico del settembre 1903 riveste un’importanza non ancora valutata per la biografia di Lorenzo Viani e per la trama della sua connessione shelleyana. Quella pubblicazione ospita in prima pagina un ritratto di Shelley del quale autore è Lorenzo Viani. È quasi sicuramente quella la prima importante manifestazione del pittore Lorenzo Viani ed è significativo che avvenga nel numero unico dedicato a Shelley, dove viene pubblicata la poesia Anniversario Orfico che D’Annunzio aveva dedicato alla rievocazione di Shelley e che si apriva con i versi che gli affiliati ai culti shelleyani avrebbero mandato a mente:

Udimmo in sogno sul deserto Gombo / sonar la vasta buccina tritonia / e da Luni diffondersi il rimbombo / a Populonia.

Quella poesia Viani non la dimenticò mai. Se la ricordava bene nell’agosto 1922 quando la collocava al centro della prima pagina del numero unico, concepito con l’intento di mandare un messaggio a D’Annunzio. Tutta questa storia non sarebbe venuta alla luce se non ci fosse stata l’occasione delle celebrazioni del bicentenario shelleyano. A conti fatti meritava conoscerla.

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