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venerdì, Novembre 22, 2024

Linguaggio e devozione della Versilia Storica, Dante a Campaldino e l’attualità di Mazzini in un ciclo di conferenze

Prende il via domani il nuovo ciclo di conferenze, per la precisione il 45°, promosso dalla Sezione “Versilia Storica” dell’Istituto Storico Lucchese. Gli incontri si terranno tutti nella sala “Giuseppe Bambini” della Croce Bianca di Querceta con inizio alle ore 17.

Sabato 18 febbraio ad aprire il ciclo di incontri sarà lo storico Lorenzo Marcuccetti che tratterà il temaIl linguaggio della Versilia Storica: tanti vernacoli, una sola radice

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“L’Italia è il paese degli endemismi – spiega il relatore – , che ne sono al contempo forza e debolezza. Cultivar, tipologie edilizie, paesaggi, si differenziano e si caratterizzano talvolta a distanza di pochi chilometri in un territorio ricco di isole di conservazione culturali e tipologiche. Il linguaggio non si discosta da questo aspetto. Anzi, ne esprime forse in maniera ancora più marcata i caratteri originari. Quello che forse Platone, nel ‘Critone‘, identificherebbe con la forza evocativa del logos. Scopriamo così che quelli che ci hanno insegnato a definire dialetti e, in forma ancora più colorita e particolare, vernacoli, si differenziano continuamente, da zona a zona e, spesso, addirittura da paese a paese”.

“La Versilia Storica non esula da tale ragionamento. Il linguaggio che esprime, dalla costa fino alle valli apuane, si diversifica (o forse sarebbe meglio usare il verbo all’imperfetto), talvolta nella cadenza, talvolta anche nell’uso stesso dei termini, seguendo una regola che ritroviamo in tutto il territorio provinciale e regionale. Scopriamo così che un orecchio attento, in passato, avrebbe facilmente capito il paese di provenienza di un versiliese sentendolo parlare: di Guerceta, di Zzani, di Terinca, di Pomezzana, del Forte, di Pietrasanta, di Seravezza e così via. Scopriremmo anche – conclude Marcuccetti – , andando in profondità, che le spie fonetiche del dialetto della Versilia Storica sono le stesse della bassa e media Garfagnana, cambiando solo, in molti casi, l’uso dei singoli termini. Scopriremo magari che il vernacolo, o forse dialetto, della Versilia Storica, non è solo espressione della cultura di questo popolo, ma in realtà rappresenta anche qualcosa di più”.

La sacra immagine di Stazzema

Sabato 18 marzo è la volta di Anna Guidi che ripercorrerà le vicende de “La Madonna del Piastraio: storia di una devozione“.

A duecento anni dalla fondazione della chiesa del Piastraio, che si trova nei pressi di Stazzema, la vicenda della devozione viene collocata più puntualmente in quel “tempo immemorabile” a cui accennava Padre Gherardi nel 1935. Nel XVI secolo “il Santo”, il luogo dove il culto fiorì, era già attestato come proprietà della chiesa di Santa Maria Assunta. Nel luogo fu edificata una cappella conosciuta come Marginetta del Santo dove era custodita una Sacra Immagine, un affresco rappresentante la Madonna in trono col Bambino. L’ipotesi che risalga al Seicento si spinge a suggerire che sia opera di Antonio Pieri, pittore di Stazzema di cui è rimasta memoria, ma non documentazione. La devozione andò crescendo e nel XVIII secolo si consolidò ulteriormente anche in seguito all’apposizione nel 1772 del quadro di Guglielmo Tommasi, anch’egli pittore stazzemese.

Per tutto il XIX secolo il Santuario della Madonna, venerata dal 1833 in poi col titolo “del Bell’Amore”, fu meta di pellegrinaggi e furono numerose le grazie ricevute e attestate dagli ex voto. Nella prima metà del XX secolo la Madonnina – così a Stazzema indicano il luogo e il culto –, continuò ad essere fatta segno di attenzione, di seguito, lentamente ma inesorabilmente, la circondò sempre di più il silenzio, una condizione rinforzata e prolungata dall’odissea dei restauri. Cionondimeno l’amore per Lei è ancora vivo e presente in Versilia e in tanti che la frequentano. In queste pagine è scritta la storia della devozione, la cronaca dei giorni straordinari e di quelli ordinari, le vicende di tanti uomini, per lo più sacerdoti, e di una donna, la custode Bartolomea, ed anche il racconto di miracolose guarigioni.

Lo storico Michele Finelli, presidente Associazione Mazziniana Italiana

Il ciclo di conferenze prosegue sabato 1° aprile Michele Finelli, presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana, che terrà una conferenza su “’I Doveri dell’Uomo’ di Giuseppe Mazzini, storia e attualità di un’opera“.

Pubblicati integralmente nel 1860, dopo essere usciti il 1840 ed il 1859 sotto forma di articoli, I Doveri dell’Uomo rappresentano l’opera più completa, e più citata, di Giuseppe Mazzini. L’esplosione della pandemia ha portato ad una loro rilettura, esaltando i valori di Umanità, Responsabilità e Solidarietà che secondo Mazzini erano gli elementi essenziali per la costruzione di un mondo repubblicano e democratico.

Nel 1840, quando concepì “I Doveri”, Mazzini indicò agli immigrati italiani a Londra il Dovere di educarsi e migliorarsi per assumere consapevolezza dei propri diritti, all’epoca negati dagli assolutismi. In questo sta la forza dell’opera: il Dovere come grimaldello per abbattere, attraverso la responsabilità, il concetto di cittadinanza passiva, valido strumento di lotta contro le diseguaglianze, anche economiche. L’equilibrio tra diritti e doveri per Mazzini garantiva ricadute positive sulla società, legando responsabilità individuale e vita collettiva. Per assumere dunque caratura morale il Dovere poteva essere compiuto solo da uomini liberi.

L’opera divenne un “best-seller”, ispirando la prima rivoluzione repubblicana di Sun Yat Sen in Cina e la lotta di Gandhi in India, solo per citare due esempi.

Obbiettivo di questo incontro è illustrarne le caratteristiche principali e verificare se ci siano echi del principio di responsabilità evocato da Mazzini nella filosofia contemporanea (ad esempio in Hans Jonas, Il principio di responsabilità, 1979).

Il diorama della battaglia di Campaldino nel Museo del Castello di Poppo (foto dal sito Casentino 2000)

Un tuffo nel Medioevo è in programma infine sabato 15 aprile quando Gianfranco Poma illustrerà “Il giorno del grande odio. Dante e la battaglia di Campaldino“.

E’ sabato 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba: nella piana di Campaldino in Casentino, ai piedi del castello di Poppi e poco lontano dal fiume Arno, si affrontano i due grandi eserciti della coalizione guelfa, composta prevalentemente da fiorentini, e di quella ghibellina, a sua volta in gran parte di aretini. In totale 20.000 fanti e oltre 2.000 cavalieri divisi da rivalità ideologiche, volontà egemoniche e interessi economici. Una resa dei conti 29 anni dopo la battaglia di Montaperti vinta dai ghibellini senesi, “lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso” (Canto X dell’Inferno), e dopo una lunga serie di scorrerie e scontri armati che avevano devastato il contado toscano.

Gli scenari però erano cambiati. Infatti le città toscane sono ormai quasi tutte guelfe e Firenze sta assurgendo al rango di potenza regionale, mentre i Ghibellini sono ridotti all’esilio e trovano rifugio nei capisaldi di Pisa e Arezzo. Come scrive il medievista Federico Canaccini, la guerra allora in corso è per una parte una guerra di sopravvivenza, a fronte di un contesto internazionale che vedeva il campo imperiale in gravissima difficoltà, per l’altra è di affermazione di un dominio e di una centralità che non accettano rivali o resistenze. Dopo due anni dall’andamento incerto e dalle sorti altalenanti, il conflitto si decide in un unico scontro. Una battaglia entrata nella storia perché non si trattò soltanto dell’ennesima guerra tra Comuni, così frequenti nel Medioevo italiano, ma anche tra fazioni e persino di guerra civile, militando fuorusciti nell’uno e nell’altro schieramento.

Nella cavalleria guelfa vi erano due giovani poeti: Dante Alighieri e Cecco Angiolieri. Per la precisione Dante era un feditore (dal latino, federe, ferire), una tipologia di cavaliere che veniva selezionata tra i cittadini di più elevata estrazione sociale. I feditori venivano schierati nella prima linea dell’ordine di battaglia e dovevano affrontare il primo urto con i nemici ed eseguire le azioni più temerarie: un compito estremamente rischioso, ma che arrecava grande onore e prestigio. E il sommo poeta, allora 24enne, confesserà più tardi di aver fortemente temuto per la propria vita a causa della violenza dei combattimenti, né dimenticherà le scene terribili di quel giorno di sangue, lasciandone traccia nella sua Commedia.

E non è escluso che questa esperienza militare, unita alle vicissitudini della sua attività politica e dell’esilio, non abbiano spinto l’Alighieri su posizioni anti bellicistiche e a teorizzare una “pace universale” sotto la guida dell’Impero, quasi un pacifista e un laico ante litteram. 

 

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