L’esperienza di Dante Alighieri come cavaliere e le guerre tra guelfi e ghibellini nella Toscana del XIII secolo sono il tema dell’incontro di chiusura del 45° ciclo di conferenze promosso dalla Sezione “Versilia Storica” dell’Istituto Storico Lucchese. Sabato 15 aprile alle ore 17, nella sala “Giuseppe Bambini” della Croce Bianca di Querceta, il giornalista Gianfranco Poma illustrerà “Il giorno del grande odio. Dante e la battaglia di Campaldino”.
E’ mezzogiorno di sabato 11 giugno 1289, giorno di San Barnaba: nella piana di Campaldino in Casentino, ai piedi del castello di Poppi e poco lontano dal fiume Arno, si affrontano i due grandi eserciti della coalizione guelfa, composta prevalentemente da fiorentini, e di quella ghibellina, a sua volta in gran parte di aretini. In totale 20.000 fanti e oltre 2.000 cavalieri divisi da rivalità ideologiche, volontà egemoniche e interessi economici. Una resa dei conti 29 anni dopo la battaglia di Montaperti vinta dai ghibellini senesi, “lo strazio e il grande scempio / che fece l’Arbia colorata in rosso” (Canto X dell’Inferno), e dopo una lunga serie di scorrerie e scontri armati che avevano devastato il contado toscano.
Gli scenari però erano cambiati. Infatti le città toscane sono ormai quasi tutte guelfe e Firenze sta assurgendo al rango di potenza regionale, mentre i Ghibellini sono ridotti all’esilio e trovano rifugio nei capisaldi di Pisa e Arezzo. Come scrive il medievista Federico Canaccini, la guerra allora in corso è per una parte una guerra di sopravvivenza, a fronte di un contesto internazionale che vedeva il campo imperiale in gravissima difficoltà, per l’altra è di affermazione di un dominio e di una centralità che non accettano rivali o resistenze. Dopo due anni dall’andamento incerto e dalle sorti altalenanti, il conflitto si decide in un unico scontro. Una battaglia entrata nella storia perché non si trattò soltanto dell’ennesima guerra tra Comuni, così frequenti nel Medioevo italiano, ma anche tra fazioni e persino di guerra civile, militando fuorusciti nell’uno e nell’altro schieramento.
Nella cavalleria guelfa vi erano due giovani poeti: Dante Alighieri e Cecco Angiolieri. Per la precisione Dante faceva parte dello scaglione che veniva schierato nella prima linea dell’ordine di battaglia, che quindi doveva affrontare il primo urto con i nemici ed eseguire le azioni più temerarie: un compito estremamente rischioso, ma che arrecava grande onore e prestigio. Nel toscano del tempo c’era un termine specifico per indicare i cavalieri che ne facevano parte: i feditori, da fedire, forma antica di ferire, il cui significato originario è colpire o urtare.
Come rileva Alessandro Barbero, occorre infatti “correggere il frequentissimo errore dei dantisti, i quali ritengono che i feditori fossero una specie di cavalleria leggera, incaricata di aprire il combattimento con schermaglie. Invece erano quelli che dovevano sostenere il primo urto, il più violento della cavalleria nemica ancora fresca, e quindi dovevano essere ben montati e bene armati. Erano, come nota il Villani, “de’ migliori dell’oste”, e venivano selezionati tra i cittadini di più elevata estrazione sociale.
A Campaldino i cavalieri fiorentini erano 600, tutti “cittadini con cavallate”, scelti cioè dall’elenco dei cittadini ai quali, in previsione della campagna, il comune aveva imposto di mettere a disposizione un cavallo da guerra: “i meglio armati e montati” che fossero mai usciti da Firenze, secondo il Villani. Come spiega Barbero, il meccanismo delle cavallate è conosciuto solo fino a un certo punto. Si trattava di un obbligo deciso volta per volta, imposto in quantità variabile ai cittadini più agiati (o comunque a persone “que sint sufficientes et magis idonee ad ipsas cavallatas habendas”, come recita una provvigione del 1290), e compensato, peraltro, con un salario annuo; chi si vedeva imporre la cavallata doveva mettere a disposizione del comune un cavallo da guerra, presentandolo a una verifica periodica. Quando bisognava consegnare il cavallo per la partenza di una spedizione, il proprietario poteva scegliere se montarlo lui stesso oppure presentare un sostituto, ma la scelta più diffusa era la prima.
Ma, come rileva ancora Barbero, sotto il profilo storiografico Campaldino ha anche “un’importanza centrale per il medievista anche al di là dell’orizzonte toscano e della storia letteraria. Grazie alla straordinaria narrazione che ne hanno lasciato Dino Compagni e Giovanni Villani, è in assoluto una delle battaglie medievali su cui disponiamo delle informazioni più abbondanti. Un osservatorio ideale, dunque, per capire come si faceva la guerra nel Medioevo: dal reclutamento degli eserciti al processo decisionale che conduceva al conflitto, dalla pianificazione d’una campagna alla conduzione tattica d’uno scontro, fino alle tensioni sociali che attraversavano le forze armate, specchio, allora come oggi, delle contraddizioni d’una società”.
Tornando al “giorno del grande odio” come lo ha definito Franco Cardini, non è quindi un caso che il sommo poeta, allora 24enne, confesserà più tardi di aver fortemente temuto per la propria vita a causa della violenza dei combattimenti, né dimenticherà le scene terribili di quel giorno di sangue, lasciandone traccia nella sua Commedia.
E non è escluso che questa esperienza militare, unita alle vicissitudini della sua attività politica e dell’esilio, non abbiano spinto l’Alighieri su posizioni anti bellicistiche e a teorizzare una “pace universale” sotto la guida dell’Impero, quasi un pacifista e un laico ante litteram.