La storia della Banca Nazionale del Lavoro (BNL) è al centro dell’articolo scritto da Carlo Bigazzi (ex dirigente dell’istituto di credito e attualmente C.F.O. in outsourcing per le PMI) che sarà pubblicato nel prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli. Nel suo articolo – che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – dal titolo “BNL, una storia italiana vissuta da vicino. 2021-2022: una vertenza sindacale aspra in un sistema bancario in perenne
riorganizzazione e ridefinizione del business model”, Bigazzi analizza anche gli scenari attuali e futuri del mondo bancario e del sistema economico italiano, individuando una serie di problematiche e le possibili soluzioni.
Da poco più di un mese ho raggiunto i 72 anni e, ripensando al traguardo raggiunto, mi sono reso conto per la metà di questo tempo (36 anni e quattro mesi) sono stato un dipendente di BNL. La mia storia di bancario inizia nel dicembre 1971 e termina nel marzo 2008. In gioventù ero ben contento di lavorare in una banca fondata il 15 agosto 1913 (lo stesso anno di nascita di mio padre) e che aveva avuto come primo obiettivo il credito alla cooperazione, un sistema di economia solidale che secondo me anche oggi andrebbe svincolato dalle logiche di parte politica e dal sistema di governance tipico di queste aziende (un voto per ogni socio indipendentemente dalle quote o azioni possedute). Questo sistema crea spesso dei centri di potere interni che a volte portano alla crisi aziendale o comunque a delle inefficienze diffuse nella gestione. In teoria lo strumento cooperativo avrebbe dovuto garantire uno sviluppo armonico se ben gestito in ogni parte d’Italia recuperando i posti di lavoro persi di continuo e le fasce di povertà endemica in alcuni territori.
Oggi questo tipo di società solidali si caratterizza soprattutto per le operazioni di “workers buy out” in aziende decotte o in dismissione dalla proprietà con i dipendenti che diventano soci di una “newco” per salvare il posto di lavoro, magari facendosi anticipare l’indennità di disoccupazione che diventa quindi il primo capitale disponibile per la cooperativa.
Si stanno affermando sul mercato nazionale anche le “Benefit Corporation”, un nuovo tipo società presente dal 2016 (idea importata dagli USA) che nell’esercizio di un’attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di un beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti ed associazioni e altri portatori di interesse.
Esistono anche le cosiddette “start up innovative” che hanno una serie di benefici nel reperimento dei capitali (equity crowdfunding ma non solo) con detrazioni fiscali correlate all’investimento e una burocrazia semplificata in diversi passaggi tra cui maggiori opportunità e flessibilità nei contratti di lavoro. Questo tipo di soggetti nella visione corrente devono saper gestire l’innovazione economica e linee di business atipiche e non di routine sfruttando piccole cifre raccolte tra la folla dei sottoscrittori.
Ugualmente ricordo con orgoglio la privatizzazione BNL nel 1998 con la Banca degli Enti che diventava la Banca dei Clienti.
Con Nerio Nesi, Presidente della Banca per lungo tempo, mi accomunava il fatto di essere stato, anche se solo per sei mesi, un dipendente della “Ing. C. Olivetti & C” (Nesi era stato a capo dei servizi finanziari della società) allora considerata azienda innovativa sia nella gestione del business che nel rispetto e valorizzazione delle risorse umane. Adriano Olivetti affermava che la fabbrica non doveva solo guardare il dato dei profitti ma doveva distribuire ricchezza, cultura, servizi e democrazia. Pensava alla fabbrica per l’uomo e non all’uomo per la fabbrica. Alcune regole e le politiche di remunerazione del management della Olivetti erano a mio avviso qualcosa di moderno ed etico e rendevano l’azienda attrattiva e il business sostenibile.
Ricordo con vergogna lo scandalo della Filiale BNL di Atlanta emerso nell’agosto del 1989 dove venne rilevato, a seguito di finanziamenti non correttamente gestiti verso l’Iraq, un ammanco di tali proporzioni (più di 2 mld di dollari Usa) che fece scalpore e inquinò per sempre la reputazione e il destino della più grande Banca italiana.
In quel momento la Banca era già una Spa anche se controllata da enti pubblici (Inps, Ina, Inail riuniti in un patto di sindacato) ed era diretta dal D.G. Giacomo Pedde, un sardo che aveva iniziato la carriera prima come giornalista e poi come giovane impiegato alla sede di Cagliari della BNL. Trasferitosi a Roma, aveva frequentato i corsi di addestramento per diventare Direttore Amministrativo. All’epoca in ogni Filiale era allocata una figura denominata in sigla CSE (Capo dei Servizi Esecutivi) con compiti di gestione operativa e di controllo. Aveva nel tempo raggiunto la posizione apicale di Direttore Generale della Banca con una reputazione di ristrutturatore. La sua figura era caratterizzata anche da importanti parentele (famiglie Cossiga e forse anche Berlinguer).
La carenza di controlli in quel periodo (si diceva che le visite ispettive non erano necessarie in quanto le Filiali erano tutte collegate in tempo reale e si doveva risparmiare sui costi di trasferta degli ispettori) favorì sicuramente chi gestiva la massa di crediti anomali della Filiale di Atlanta anche se trattandosi di cifre notevolissime non potevano non incidere sulla tesoreria della Banca e dare adito a più di qualche sospetto tra gli uomini chiave.
Nell’attualità credo sia importante per i dipendenti bancari, oggi stressati da “budget” sempre più ambiziosi, di ricordare che una delle regole delle imprese di ogni settore è il passaparola positivo nella comunità dei clienti di riferimento. Il cliente – specie quello che non ha bisogno – ti può abbandonare in qualsiasi momento a seguito di una delusione ed è in fin dei conti il vero arbitro della situazione e quello che, se seguito e soddisfatto, salva i posti di lavoro ed evita la chiusura delle agenzie.
Le pressioni commerciali a raffica non solo in BNL ma nelle principali banche italiane tendono a far diventare il bancario il piazzista della vendita di turno anziché un consulente qualificato che deve supportare il cliente nella pianificazione finanziaria. Credo che il sistema delle banche ed i sindacati in unione anche con le associazioni dei consumatori possano cercare di superare questi metodi anche se ci sono forti resistenze al cambiamento.
Non per nulla si parla sempre di più nella gestione commerciale delle aziende di “Gratitudine Marketing” e del “Manager della felicità” nella gestione delle risorse umane. Le aziende moderne sono consapevoli che i clienti sono l’attivo aziendale più importante insieme alle risorse umane che li devono gestire e mantenere.
Ricordo infine che l’OPA di BNP (anch’essa nata da un merger nel 2000) su BNL ebbe un pieno successo anche tra i dipendenti BNL che aderirono conferendo il 100% delle loro azioni ordinarie e di risparmio (BNP pagava cash) e ricordo anche che per tanto tempo prima di BNP furono cercate occasioni di fusione/ apparentamenti della BNL con altre istituzioni bancarie anche estere mai andate a buon fine per varie ragioni.
La gestione di BNL successiva all’acquisizione è scritta nelle regole e nei sistemi del “private equity” che BNP, nella sua qualità di multinazionale, applica con regolarità in tutto il mondo. Ugualmente il modello di business è un format replicabile ovunque ma credo con poche personalizzazioni. Semmai ci sono delle responsabilità in alcune scelte non condivisibili, queste sono a mio avviso anche e soprattutto del “middle management” che ritengo sia stato inserito da BNP nella partecipata con mandati sempre più precisi e pressanti.
Io ho cessato il rapporto di lavoro nel marzo del 2008 e ancora non si erano verificate le situazioni di discontinuità degli anni successivi – sembrava che BNP contasse molto sull’acquisizione fatta – si parlava dell’Italia come il secondo mercato domestico di BNP e si auspicava l’ulteriore sviluppo di BNL Banca Commerciale. Vennero in un primo momento dopo l’acquisizione aperte anche nuove agenzie e rammodernate quelle esistenti secondo degli schemi abbastanza commerciali ma gradevoli.
Oggi è sotto gli occhi di tutti che la digitalizzazione è l’unico sistema che, permettendo alle Banche un risparmio di costi, può nel contempo migliorare in certi ambiti la fruibilità di servizi anche standardizzati e automatizzati per una clientela retail (privati e microimprese) che comunque ha bisogno di servizi bancari e di uno o più referenti nel territorio di riferimento. BBVA, che nel 2005 aveva una partecipazione del 15% in BNL e aveva lanciato un’Opa non andata a buon fine, è ad oggi ritenuta da molti la Banca più digitalizzata e innovativa e recentemente con la sua piattaforma digitale ha iniziato ad operare attivamente in Italia, che ritiene il suo primo mercato estero, con un conto corrente e carte di debito digitali.
Dopo i recenti scioperi che hanno interrotto una pace e forse un dialogo tra sordi durato decenni, auspico si possa cercare e trovare una linea di mediazione sostenibile tra la Banca e il suo personale. Credo fermamente che ci sia bisogno di archiviare quello che è successo negli scorsi anni e che l’inserimento continuo nella linea di comando di quadri assunti dall’esterno abbia amplificato il malcontento e la confusione anziché essere il volano di uno sviluppo aziendale. Mentre scrivo queste note rilevo un articolo di una sigla sindacale che sembra andare verso un ripristino del dialogo tra le parti nell’affrontare con positività ed innovazione i problemi del personale e della Banca. Anche per BNL credo che possa valere la famosa legge che “niente si crea, niente si distrugge ma tutto si trasforma” del chimico Lavoisier.
Le Filiali ed Agenzie di BNL storiche erano una rete a maglie larghe (allocata principalmente su base provinciale e nelle città medie) che mal si adatta all’attualità economica e gestionale del nostro Paese.
Per quanto riguarda il personale nelle banche di oggi, credo che ciascuno debba continuamente cercare di affinare le proprie competenze professionali, dimostrare rispetto e collaborazione nella correttezza sia con i clienti che con i manager da cui dipende. Se del caso dovrà avere la forza e il coraggio di fare quei cambiamenti che gli permettano uno sviluppo professionale anche su nuove basi, non solo come dipendente ma anche eventualmente come autonomo.
Recentemente abbiamo potuto consultare una statistica che ha attestato che dal 1990 al 2020 la media salariale sia cresciuta in tutti i Paesi in esame al di fuori dell’Italia dove si è registrata una diminuzione del 2,9% (elaborazione Openpolis su dati Ocse).
Questo dato la dice lunga sulle prospettive del lavoro dipendente in ogni settore economico del nostro Paese che si caratterizza anche per un gap notevole tra il lordo contrattualizzato e il netto riconosciuto in busta paga ai lavora tori (il cosiddetto cuneo fiscale) con ritenute e costo del lavoro assai onerosi e che quindi scontentano sia i datori che i prestatori d’opera. Occorrerebbe che questi oneri permettessero di finanziare un sistema integrato di welfare pubblico adeguato a quanto detratto con ritenuta alla fonte come contributi e tasse sul reddito.
Mi piacerebbe che la politica nazionale nell’affrontare i problemi del nostro Paese si potesse confrontare in modo unitario e pragmatico, senza guardare continuamente alle prossime elezioni, con i reali problemi derivanti dalla globalizzazione. L’Italia ha perso competitività nel manifatturiero nei confronti delle regioni asiatiche (Cina in primis) dove tanti prodotti sono realizzati con paghe ridotte e condizioni di lavoro estreme e pressanti. Le PMI avrebbero dovuto regolarsi negli anni decorsi facilitando la collaborazione tra imprese per creare al posto delle imprese esistenti delle organizzazioni più capitalizzate e dotate di mezzi finanziari, utilizzando oltre alle tecniche di M&A se del caso anche la normativa che disciplina la collaborazione indipendente nelle Reti d’impresa.
Uno dei principali problemi emersi dal 2008 in poi è il progressivo andare in crisi delle PMI quasi sempre per la mancanza di pianificazione nel ricambio generazionale, della inadeguatezza dei figli subentrati nell’attività ai genitori senza idee e regole di sana gestione aziendale e che non hanno capito in tempo le modifiche e le insidie del mercato molto spesso arrivati in Italia dall’estero (vedasi per tutti il caso Ikea e la scomparsa quasi totale della filiera del legno arredo in Italia ma si potrebbe discutere del medesimo problema per quasi tutti i settori economici).
Oggi l’esplodere dei costi dei noli dei trasporti marittimi in uno con le agevolazioni corpose per innovare e modernizzare la produzione industriale stanziate in Italia dal Mise (Industria 4.0, Sabatini e altro) potranno permettere alle nostre imprese di aggiornare in modo sostanziale i sistemi di produzione industriale riducendo in modo significativo i costi aziendali. Il sistema delle imprese ha pertanto un’occasione da sfruttare in modo veloce e puntale per riportare in Italia larga parte delle produzioni industriali, anche perché nel passato abbiamo perso intere filiere produttive che si sono spostate nei paesi dell’Est alla ricerca del miglioramento dei margini. Non è un caso che con la rarefazione del tessuto industriale e commerciale e l’esplodere delle procedure concorsuali in anni recenti è stata distrutta tanta ricchezza che ha coinvolto il sistema bancario, oggi impegnato soprattutto a ridurre i costi aziendali e a smaltire progressivamente i crediti deteriorati.
La riqualificazione del sistema economico del Paese, la sostenibilità delle risorse e la riduzione della dipendenza dall’estero potrà forse migliorare la vita degli italiani e dare stabilità al sistema finanziario ove si consideri che la pandemia trascorsa e la guerra attuale hanno ingigantito il debito pubblico e privato e non si può impunemente continuare ad incrementare il debito senza darsi delle regole certe di rientro.