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venerdì, Novembre 22, 2024

Il pianto dei bambini nella prima infanzia: come capire le sue cause

Nei primi tre mesi di vita un neonato piange in media due – tre ore al giorno.

Questa manifestazione è l’unico modo per segnalare una sua richiesta, un disagio, dal momento che non ha ancora la capacità di parlare. Piangere è un vero e proprio sistema di segnalazione, un richiamo tutt’altro che generico. È un modo per dialogare, per allenare gli altri a rispondere adeguatamente.

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Dopo la nascita tutti i pianti sembrano essere molto simili, varia solo il timbro, l’acuto o la modulazione, pertanto è necessario del tempo, qualche settimana, perché il neonato impari a comunicare meglio e i genitori imparino a capire le innumerevoli sfumature di questo vocalizzo. Il bambino va compreso, rispettato, aiutato.

Esistono diversi tipi di pianto. Vediamo quelli più importanti.

Pianto della fame

Senza ombra di dubbio il pianto della fame, uno degli stimoli più forti che porta un neonato a chiamare, è il più utilizzato e importante. È un linguaggio fatto di grida sempre più forti e prepotenti, fino a che il seno o il biberon subentrano nel soddisfare il bisogno primario della fame. 

Pianto dell’abbandono e della paura

È un pianto molto forte, improvviso, specie nei primi mesi di vita. Si manifesterà sempre quando il piccolo, svegliatosi dal sonno, non avvertirà quella parte di se che noi chiamiamo mamma, ma che in realtà egli considera come “un pezzo del suo corpo”. È il pianto di un bisogno esistenziale e accogliendolo noi assecondiamo un bisogno psichico e facciamo sì che cresca interiormente bene, tranquillo, certo di essere accolto e sostenuto sempre. 

Pianto per stimoli eccessivi

Quando il bimbo è coinvolto da stimoli troppo forti, troppo rumore, troppo caldo, troppo freddo, troppo sole, troppa luce, troppo brusio di voci può lamentarsi ed avvertire disagio. Ciò non vuol dire però che i bambini debbano vivere in ambienti completamente silenziosi o bui perché questo li porterebbe a non adattarsi mai al contesto in cui dovranno crescere.

Pianto da sonno

Con il passare dei giorni ogni madre impara da sé a riconoscere il pianto del neonato che ha sonno e non riesce a dormire e che, a ben guardare, si lamenta fregandosi gli occhi.

Pianto per essere preso in braccio

Il pianto del bimbo che vuol essere preso in braccio, che vuole essere spostato o cambiato di posizione è una specie di lamento continuo, intervallato da pause che sembrano delle attese per vedere se la madre ha captato la richiesta. Questo tipo di pianto deve comunque ricevere una riposta equilibrata e non eccessiva rispetto alla richiesta onde evitare di innescare abitudini che porterebbero solo a rinforzare il pianto stesso.

Pianto per dolore

C’è poi un pianto spasmodico, come di dolore da coliche gassose, molto comune tanto da essere quasi considerato normale, che le madri imparano rapidamente a riconoscere. 

Come riconoscere i diversi pianti del neonato e rispondere alle sue esigenze

Il bambino di meno di un anno usa il pianto come linguaggio, perciò usa il pianto come fossero parole e lo fa senza soffrire. È l’unico sistema che ha per comunicare con l’ambiente.

I genitori non devono avere paura che il bambino, quando piange, abbia necessariamente una malattia. Se è malato infatti il bambino è debole e anziché piangere rifiuterà il cibo, ma soprattutto sarà assopito, senza sorriso, spesso con gli occhi chiusi, presentando una svogliatezza nelle pur poche attività che compie normalmente, per esempio smetterà di giocare con le cose che ha intorno. Quando la malattia è lieve il bambino piange, ma in questo caso i genitori riconoscono questo tipo di pianto con facilità, infatti la tonalità tende a diminuire, cioè il bambino perde forza e vigore nel pianto e dopo qualche minuto piangerà con meno intensità e forza.

Nei casi invece in cui il bambino con il pianto pensa di parlare si vedrà che più passa il tempo più piange con forza e intensità. Lo stesso vale quando il bambino con il pianto chiede il latte o il cibo in generale.

Il pianto, a differenza di quanto si possa pensare, ha in natura una valenza positiva perchè è il modo in cui il bambino cerca di comunicare con l’ambiente. Per questo è importante che i bambini piangano, essi devono imparare a comunicare con i genitori e soprattutto ad ottenere risposte che non devono essere date preventivamente affinchè il bambino non pianga, ma solo successivamente.

Spesso nel tempo siamo stati culturalmente e socialmente condizionati dall’idea che “un bambino non deve piangere”. Non di rado molti nonni, ma anche molti genitori, ritengono che un bambino non debba piangere, in nessuna condizione. In linea generale possiamo dire che il pianto “socialmente” più accettato è quello che esprime fame, dolore, sonno, stanchezza mentre il pianto da rabbia, frustrazione, ribellione viene spesso accolto con più fatica, ed è proprio quello che richiede maggiore attenzione da parte degli adulti perché più a rischio di risposte errate da parte di questi. 

L’accoglimento del pianto di un bambino, indipendentemente dalla causa che lo ha generato, è il punto di partenza per poter poi intervenire, se necessario, nella maniera più appropriata. Bloccare questa espressione emotiva importantissima non sempre è la soluzione più giusta. Il bambino ha sempre bisogno di sentirsi compreso quando piange, necessita di sentirsi accolto. Solo in questo modo potrà comprendere eventuali messaggi educativi che i genitori vogliono trasmettere. A titolo esemplificativo se un bambino piange disperato perché non ha ottenuto ciò che voleva (un gioco, un biscotto…) sta semplicemente esprimendo la propria rabbia, il proprio disappunto. Non ha alcun senso distrarlo con altro o rimproverarlo. L’azione più giusta è quella di accogliere la sua emozione spiegandogli che ciò che voleva non può essere ottenuto. Dire: “Ti capisco se sei arrabbiato perché volevi tanto un biscotto ma tra poco ceneremo e mi farebbe piacere che tu mangiassi insieme a noi” fa sentire il bambino compreso ma nello stesso tempo non si viene meno al messaggio educativo che intendiamo trasmettere con l’avergli negato un biscotto.

Alla base di tutto questo c’è il profondo rispetto del bambino e delle sue emozioni che lo porterà a sentirsi accolto e che, nel contempo, rinforzerà la sua autostima perché percepirà di essere degno di ascolto e di attenzione. 

Piangere non è sbagliato, lo possono e lo devono fare tutti, bambini e bambine. Reprimere questa modalità espressiva delle emozioni non porta a niente ma comprenderne le cause ed intervenire per risolverle è ciò che ogni adulto dovrebbe fare. 

Nella mia esperienza professionale come educatrice prima e come pedagogista poi ho spesso assistito a genitori in estrema difficoltà di fronte al pianto del proprio bambino. Spesso è come se un intero sistema (genitore-bambino) andasse in corto circuito senza la possibilità di rimettere in contatto i fili. Mi è certamente chiaro che a nessuno fa piacere vedere piangere qualcuno, specie se si tratta di un bambino, ma sono dell’idea che se solo ci soffermassimo un po’ di più a comprendere le cause del pianto e provassimo ad utilizzare una comunicazione diversa le cose si risolverebbero più velocemente e con maggiore tranquillità.

Dico spesso ai genitori che quando un bambino cade, nella maggior parte dei casi, sente dolore e quando questo accade una delle frasi più comuni è: “Via su dai alzati, non ti sei fatto niente!”. Ecco, io credo che questa sia una delle cose meno utili da dire a un bambino che è appena caduto. Che senso ha negare un dato oggettivo semplicemente perché noi ci siamo spaventati e con questa frase stiamo, di fatto, rassicurando prima noi stessi? Perché negare una cosa che, per altro, non ci riguarda in prima persona con il solo risultato di far sentire sciocco il bimbo che vorrebbe tanto scoppiare in un pianto a dirotto? Molto meglio intervenire per aiutare il bambino a rialzarsi e dire: “Credo che tu ti sia fatto molto male vero? Puoi piangere se vuoi…io posso aiutarti a rialzarti e metterò un cerotto sulla tua ferita così che tu non senta più male”. Consentirgli di esprimere il suo dolore sentendosi compreso e, nello stesso tempo, aiutarlo a superare l’accaduto è la cosa più rassicurante che si possa fare. 

Alcune volte non è nemmeno necessario intervenire. I bambini, a seconda delle situazioni, sono anche in grado di consolarsi da soli. Penso ad un veloce risveglio notturno, ad un blando litigio con i coetanei, ad una “bizza” passeggera. Non sempre è opportuno che l’adulto intervenga per placare il pianto del bambino e, inoltre, rispondere in maniera adeguata a queste lacrime non significa sempre rispondere immediatamente. 

Al contrario se il pianto di un bambino viene costantemente ignorato, egli potrebbe ricevere il messaggio dannoso di poter essere amato e accudito solo quando è felice. I bambini che ricevono continuamente questo messaggio attraverso gli anni non si sentiranno mai veramente amati ed accettati e potranno sviluppare personalità difficili diventando adulti, con poca stima di se stessi, timorosi e diffidenti nei confronti del prossimo. 

La teoria dell’attaccamento di J. Bowlby analizza molto bene questi “stili” di personalità e dimostra efficacemente come le risposte che riceviamo da bambini ai nostri segnali di allarme, e quindi al nostro pianto, condizionano inevitabilmente la nostra personalità adulta ed il nostro modo di vivere i legami affettivi. 

Se i tentativi del bambino di comunicare tristezza o rabbia vengono sistematicamente ignorati egli non può imparare in che modo esprimere quei sentimenti con le parole. Il pianto ha bisogno di ricevere una reazione appropriata e positiva affinché il bambino capisca che tutte le sue emozioni sono accettate. Se le sue emozioni non sono accettate, e viene ignorato o punito perché piange, egli riceve il messaggio che la tristezza e la rabbia sono inaccettabili, non importa come siano espresse. Un bambino sa soltanto comunicare nei modi che gli sono possibili ad ogni età, può solo riuscire a fare quello che ha avuto l’opportunità di imparare. È decisamente sleale punire un bambino per non aver fatto più di quanto sappia fare.

I genitori dovrebbero essere aiutati a capire quanto sia frustrante per un bambino sentirsi invisibile quando il suo pianto è ignorato, o sentirsi indifeso e scoraggiato quando i suoi tentativi di esprimere i suoi bisogni e i suoi sentimenti vengono ignorati o puniti.

I genitori che si chiedono se rispondere o no al pianto dovrebbero riflettere su quali sarebbero le loro reazioni in situazioni simili. Alcuni genitori considerano appropriato ignorare il pianto di un bambino, eppure, provano intensa rabbia se il loro partner li ignora quando tentano di fare conversazione. 

Se ai bambini si insegna attraverso l’esempio che le persone indifese meritano di essere ignorate, rischiano di perdere quella compassione per gli altri con la quale tutti noi esseri umani siamo nati. Se, da neonati indifesi, i loro strilli vengono ignorati, iniziano a credere che questa sia la reazione appropriata verso quelli che sono più deboli di loro stessi. 

Ignorare il pianto di un bambino è come ignorare la sirena di un allarme antincendio perché ci da fastidio. Il piangere, come il segnale d’allarme, serve a catturare la nostra attenzione così che possiamo soddisfare i bisogni importanti del bambino. La natura non avrebbe mai dotato i bambini di un richiamo ricorrente senza una ragione.

Impariamo quindi ad accogliere, fisicamente e verbalmente, il pianto di un bambino, proviamo a stargli vicino facendolo sentire compreso ed accettato e poi riportiamo la sua attenzione sui fatti o le condizioni che hanno causato il pianto. Dategli un limite se una cosa non può essere fatta, consapevoli che questo determinerà una probabile reazione di pianto, ma fate sempre seguire il lato positivo del messaggio educativo che intendete trasmettergli, senza minacce e senza premi che sarebbero solo un inutile ricatto. 

Alla fine della tempesta, del resto, spunta sempre l’arcobaleno.

Dott.ssa Anna Maria Montanaro -Pedagogista

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