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venerdì, Novembre 22, 2024

Mario Tobino e la Viareggio che fu nelle pagine straordinarie di “Lungo la spiaggia e di là dal molo”

La riedizione negli “Oscar” Mondadori di “Lungo la spiaggia e di là dal molo” di Mario Tobinoavvenuta nel ventesimo anniversario della sua morte (sarebbe indispensabile un ulteriore ristampa) invitava ad una sua attenta rilettura ed a fare, conseguentemente, alcune considerazioni su questo lungo racconto della memoria, avente per oggetto una Viareggio che non c’è più, e che quasi si stenta a credere possa essere esistita. Lontana anni luce dal contesto urbanistico e sociale descritto col cuore – “in te son nato, in te spero morire” – la Viareggio di oggi non sembra neppure figlia illegittima di quel “paese” in cui chi non andava per mare, era semplicemente un “terrazzano”. Una persona, cioè, che poco o niente poteva capire della mentalità di chi stava mesi e mesi lontano da casa, o di chi per mesi e mesi ne attendeva il ritorno o, purtroppo, il non ritorno.

Ebbene, quando per la prima volta “Lungo la spiaggia e di là dal molo” fece la sua apparizione in libreria – oltre mezzo secolo fa – molti dei personaggi che sembrano uscire – come fossero ancora vivi – dalle pagine di Tobino (Tistino, Natino, la Ceina, gli Antonini) erano ancora in diversi ad averli conosciuti, anche se la scure della seconda guerra mondiale aveva eliminato le ultime illusioni sulla navigazione a vela.

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Leggere o rileggere oggi questo libro che parla di una Viareggio che non c’è più, e che nessuno ovviamente ricorda se non attraverso il sentito dire, o per aver letto ciò che della sua storia hanno scritto Francesco Bergamini e Paolo Fornaciari – già conservatori del “Centro documentario storico comunale” – è pertanto come andare alla ricerca del tempo perduto, di una dimensione onirica e fantasmagorica di una realtà che soltanto il suo autore è capace di estrapolare da un contesto sociale fatto di attese, sacrifici, lacrime e sangue. Questo perché come “figlio del farmacista” abitava su quel “piazzone” che da ragazzo vide deturpato per la costruzione del “mercato nuovo”, dopo che vi fossero dati alle fiamme gli autocarri militari inviati a Viareggio per sedare la rivolta del 2 maggio 1920. Una rivolta che per tre giorni isolò la città dal resto d’Italia e che fu banalmente causata da un risultato calcistico di parità, ritenuto ingiusto dai “tifosi” locali perché decretato dall’arbitro di una strana partita disputata contro l’acerrima nemica: la Lucchese. Ebbene, anche queste “tre giornate rosse” – così definite per i risvolti politici che subito assunsero – in cui vi furono alcuni morti ammazzati e diversi feriti, nelle pagine di Tobino assumono dei contorni narrativi che ne fanno un semplice seppur tragico episodio. Descritto cioè come appartenente ad una realtà di cui in un certo senso era necessario scusarsi, in quanto venuto ad alterare un ambiente che con la violenza aveva poco o nulla da spartire.

Ciò che in questo libro assume invece dei connotati ben precisi, è l’antifascismo ancestrale di Mario Tobino, anche se sempre espresso in termini piuttosto sfumati, ma quanto mai precisi nell’indicare da che parte stava la ragione. Infatti ne è probante e illuminante esempio il contenuto del capitolo “Andasti, o giovinastro, al gran veglione”, che riprende il titolo dell’omonimo carro allegorico del carnevale 1924. Nella figura di questo damerino debosciato, visualizzata dopo una nottata passata all’insegna del divertimento più sfrenato, l’autore vi vede l’ultimo e disperato atto di libertà prima della notte ventennale. “Fu questo il più bel carnevale che io mi ricordi, il più sincero, un addio a tutto un periodo”: così Mario Tobino, senza proclami e senza paroloni, fa capire il suo stato d’animo per quanto sarebbe avvenuto poi, quando anche il carnevale avrebbe perduto il suo spirito dissacratorio per allinearsi – volente o nolente – alle direttive del regime. 

“Lungo la spiaggia e di là dal molo” – che in questa riedizione si presentava con un’appendice di tre capitoli inediti, ma rielaborati – non è quindi soltanto un canto, meglio parlare di un epitaffio, ad una città che già l’autore ebbe modo di assistere alla sua inesorabile trasformazione, ma è anche e soprattutto un omaggio ad una popolazione e al suo modo di pensare e di agire. Tanto da fare di Viareggio qualcosa di unico e irripetibile, soprattutto per quella marineria a vela che ebbero modo di conoscere ed apprezzare anche al di là dello stretto di Gibilterra, facendo esclamare agli esperti di bastimenti, appena ne scorgevano la sagoma in lontananza: “Quella è una barca di Viareggio!”.

Mario Pellegrini

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