Se di Mario Tobino, a prescindere da “Le libere donne di Magliano” che lo fece scoprire dal grande pubblico, dovessimo scegliere un altro titolo di grande impatto emotivo, questo non sarebbe altro che “La brace dei Biassoli”, sulle origini liguri della sua famiglia, dove protagonista assoluta è la propria madre.
Ma al di là di queste considerazioni esclusivamente personali, che comunque mettono dei paletti inamovibili nella storia letteraria italiana del XX secolo, Mario Tobino è stato anche il narratore della sua infanzia viareggina e delle vicende che caratterizzarono gli aspetti più significativi della sua città natale al tempo della navigazione a vela. Oltre, ovviamente, a mettere nero su bianco la sua quarantennale e sofferta esperienza come medico psichiatra nel manicomio lucchese di Maggiano, oltre che accanito avversario della legge Basaglia che nega l’esistenza della pazzia.
Ebbene, a prescindere da questo universo che, sia chiaro, comprende anche altri scritti di natura personale – vedi “Deserto della Libia” e soprattutto “Tre amici” – non bisogna dimenticare a questo punto che Mario Tobino, che per la sua professione medica non solo ha abitato nelle due stanzette riservatigli a Maggiano, ma anche a Lucca, dove ha avuto modo di captare e valutare tutti gli aspetti della sua popolazione. Cosa del tutto ovvia in quanto attento e profondo indagatore dell’animo umano, soprattutto nei confronti delle devianze causate dalla malattia del cervello.
Ecco così che dalla sua penna stilografica, e successivamente dai tasti della mitica e fedele “Olivetti 32”, sono scaturiti due romanzi che non sappiamo perché sono sempre stati definiti “minori”, ma che minori non lo sono affatto, in quanto ritenuti avulsi dalle tematiche trattate nei suoi libri più diffusi. Ci riferiamo a “Zita dei fiori” (fra l’altro – ironia della sorte – secondo “Premio Viareggio” dopo “Il clandestino”) e “Lucida degli specchi”. Cioè di due tipiche figure femminili lucchesi, una appartenente alla storia della città e della chiesa e l’altra ad una delle più popolari leggende che si sono tramandate nelle strade e stradine che si sviluppano all’interno del dannunziano “Arborato cerchio”.
Il fatto è che di questi due volumi si è perduta ogni traccia, sia nelle normali librerie che in quelle specializzate, per non parlare delle messaggerie dove si distribuiscano i libri. Per cui è come parlare di cose che non ci sono, ma che pur fanno parte del curriculum di uno scrittore che ha lasciato il segno in un periodo storico in cui la letteratura italiana non era certamente l’ultima nel panorama europeo.
Infatti, ne “La Zita dei fiori” ricostruisce la vita e la presenza in Lucca di questa santa, nata a Monsagrati, che è diventata tale per essersi totalmente dedicata al sostegno dei poveri, pur trovandosi al servizio della famiglia Fatinelli il cui palazzo sorgeva e sorge nei pressi della basilica di San Frediano. Qui infatti si venerano le sue spoglie in un’apposita cappella. Ma perché ‘dei fiori’? Perché si tramanda che il suo padrone, per nulla disposto ad opere di beneficenza, un giorno la fermasse sulla porta del palazzo con un cesto in mano contenente sotto una copertura gli avanzi della tavola patrizia. All’imperiosa domanda di cosa contenesse quel cesto, Zita rispose semplicemente: “dei fiori”, come in effetti si trovavano nel canestro quando il padrone tolse bruscamente il telo. Una storia che evidentemente suscitò l’interesse di Mario Tobino per i suoi risvolti umani in un’epoca in cui a Lucca, come altrove, non si andava tanto per il sottile fra chi comandava e chi doveva servire.
E certamente non gli sfuggì la festa di Santa Zita, che si celebra il 27 aprile, quando la piazza San Frediano viene annualmente ricoperta soprattutto dalle giunchiglie in fiore.
Una storia che Tobino ha recepito con il solito acume e scritto con quel suo stile piano e narrativo che già si poteva captare in quell’“Era biondo e di gentile aspetto” dove lo scrittore ricostruisce la vita di D(on)ante Alighieri. Ecco perché sarebbe opportuno procedere ad una ristampa di questo volume con l’altro “lucchese” “Lucida degli specchi” al fine di potere oggi avere il quadro completo dell’universo letterario del “Figlio del farmacista” di cui il 23 dicembre scorso ricorreva il centenario della nascita, non certo ricordato a Viareggio come si sarebbe dovuto. Una frase, comunque, smentita dai fatti, che si può leggere all’interno della diga foranea del porto. Infatti è morto ad Agrigento dove si era recato a ritirare il “Premio Pirandello”.
Ed ora dalla storia alla leggenda perché “Lucida degli specchi” narra di questa patrizia lucchese che adorava soprattutto la sua bellezza rispecchiandosi continuamente negli specchi del palazzo Manzi. A forza di rimirarsi in tutte le pose si narra che un giorno nello specchio invece che lei gli apparve il diavolo. Diventata pazza per questa aspirazione fuggi dal palazzo per andarsi ad affogare nella vasca che oggi si trova all’interno dell’Orto Botanico della città. Psichiatra quale è stato Mario Tobino, non poteva non interessarsi di questa leggenda, tanto da trasferirla in un racconto che scivola via fra fantasia e realtà, come del resto in “Zita dei fiori” dove narra la pazzia della Misericordia.
Mario Pellegrini