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venerdì, Novembre 22, 2024

Il mito di Shelley a Viareggio. Sereni ricostruisce la storia del monumento e la trama Viani-De Ambris

Viareggio ha celebrato i duecento anni della morte del poeta Percy Bisshe Shelley con una serie di iniziative, fra cui la ristampa del numero unico che Lorenzo Viani realizzò nell’agosto 1922 per testimoniare la sua devozione al culto di Shelley. La diffusione appunto del culto del poeta a Viareggio e la polemica per realizzare un monumento alla sua memoria sono al centro di un saggio del professor Umberto Sereni, la cui prima puntata sarà pubblicata sul prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli. Nell’articolo – intitolato “Per una storia del mito di Shelley: la trama De Ambris-Viani nell’estate del 1922”, che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – l’autore ricostruisce l’ambiente viareggino dell’epoca e si sofferma sull’azione del sindaco Riccioni, di Alceste De Ambris e di Lorenzoa Viani.     

Con la mostra “Lorenzo Viani e l’invenzione del mito di Shelley” ed una serie di manifestazioni collaterali a Viareggio è stato degnamente ricordato il secondo centenario della scomparsa del poeta Percy Bysshe Shelley. L’iniziativa di rievocare il poeta inglese è stata assunta dalla locale Amministrazione Comunale che si è avvalsa del braccio operativo della Fondazione del Festival Pucciniano ed ha potuto contare sul consistente contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.

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La mostra è stata allestita con intelligenza creativa dall’architetto Paolo Riani che nelle sale di Palazzo Paolina ha saputo ricostruire il pathos della tragica fine di Shelley, avvenuta al largo della costa viareggina in seguito al naufragio della goletta che, da Livorno, avrebbe dovuto recarlo a Lerici. Il suo corpo, rivenuto sulla spiaggia del Gombo, venne arso con una pira che fu approntata dall’amico Byron. Un quadro, opera del pittore Louis Eduard Fournier, conser vato alla Art Gallery di Richmond, ha fornito la raffigurazione ad alta intensità emozionale di quella scena, divenuta un’icona della sensibilità romantica. Ed ancora oggi si dimostra capace di sprigionare forti sensazioni.

Tra le iniziative collaterali da segnalare una mostra del pittore Marco Dolfi che ha fornito una nuova versione dell’immagine del “titano entro virginee forme” con la quale Giosuè Carducci intese definire le sembianze del poeta inglese. Un notevole interesse l’ha sollevato la ripubblicazione del numero unico che Lorenzo Viani nell’agosto del 1922 volle realizzare per testimoniare la sua devozione al culto di Shelley. Trascurato anche dagli studiosi più avvertiti, quel numero unico rappresenta un documento di notevole valore culturale perché fa emergere la consistenza della trama politica che nell’estate del 1922 venne attivata con l’obiettivo di convincere Gabriele D’Annunzio a intervenire nella crisi italiana in alternativa all’avanzante movimento fascista. Regista ed anima della trama il sindacalista Alceste De Ambris, che di D’Annunzio era stato il capo di gabinetto a Fiume, e che da mesi si adoperava per vincere le incertezze e le indecisioni del poeta. Di certo è sua la sollecitazione a Viani per la realizzazione del numero unico che, saputo interpretare nella sua effettiva essenza, può correttamente essere catalogato come un messaggio criptico-esoterico che ha D’Annunzio come destinatario. Tutto quel foglio è stato concepito con la finalità di esercitare una pressione sul Poeta che è il vero protagonista del numero unico: è sua la poesia Anniversario Orfico che quasi per intera occupa la prima pagina, a voler ricordare la sua paternità del culto di Shelley. Ed è a D’Annunzio che si rivolge il testo di Alceste De Ambris che, in nome della fedeltà a Shelley, sollecitava il Poeta a dare esecuzione alla promessa fiumana di “far fiorire il cardo bolscevico in rosa italiana”. In linguaggio accessibile a noi: dare alla crisi italiana una soluzione coerente con i postulati della carta del Carnaro, la Costituzione di Fiume fondata sulle più ampie garanzie democratiche e sul ruolo dirigente delle organizzazioni dei lavoratori. Da ricordare che già pochi mesi prima Viani e De Ambris avevano collaborato per realizzare, sempre presso la tipografia pesciatina, la pubblicazione del messaggio “Vogliamo vivere” che D’Annunzio aveva inviato a De Ambris per sostenere la sua candidatura elettorale a Parma.

Una volta conosciuto questo retroscena si comprende meglio perché a Viani, nell’estate del 1922, venisse in mente di far stampare dalla tipografia Benedetti di Pescia quel numero unico shelleyano per il quale il pittore viareggino ad una efficace incisione del volto di Shelley scrisse anche un articolo aspro e puntuto, traboccante di livore polemico nei confronti di quei suoi concittadini che nel passato si erano distinti nella campagna di denigrazione e di demonizzazione di Shelley. Per Viareggio, allora una modesta comunità di poche migliaia di abitanti, non più paesone, non ancora città ma in procinto di diventarla, Percy Bysshe Shelley aveva agito da amalgama coesivo di due fronti contrapposti, che traevano origine dalle marcate divaricazioni della sua conformazione sociale e si alimentavano per effetto della diffusione di culture avveniriste tipiche dell’epoca della secolarizzazione ed anche della scristianizzazione. L’erezione sulla spiaggia di Viareggio del monumento a Shelley rappresentò un capitolo fondamentale di questo conflitto che avrebbe caratterizzato le vicende di Viareggio per almeno trenta anni. Sicuramente dal settembre 1894, quando il monumento venne inaugurato, fino all’agosto 1922 quando Viani-De Ambris lo celebrarono con il numero unico.

Opera dello scultore Urbano Lucchesi, che aveva raffigurato il poeta inglese in coerenza con l’immagine divulgata da Giosuè Carducci, il monumento si alzava da un parallelepipedo a base quadrata su cui era collocata, nel lato rivolto al mare, l’epigrafe dettata da Giovanni Bovio: A P.B. Shelley / Cuor dei cuori / L’agosto del MDCCCXXII / Annegato in questo mare / Arso in questo lido / Lungo il quale meditava al Prometeo liberato / Una pagina postrema / In cui ogni generazione avrebbe segnato / La lotta, le lacrime, la redenzione / Sua.

Promotore ed officiante della celebrazione era stato l’avvocato Cesare Riccioni che per anni si era attivato per erigere sulla spiaggia di Viareggio il monumento in memoria di Shelley. Uomo di punta dello schieramento laico-progressista, con non celate simpatie per il movimento dei lavoratori, Riccioni attribuiva una duplice finalità al monumento per la cui realizzazione impegnava tutte le sue energie. Tributare un omaggio a Shelley significava legare Viareggio al culto del poeta che veniva elevato al rango supremo dei numi tutelari della cittadina e, insieme, riconoscergli la paternità ideale, garanzia di legittimità, delle aspirazioni di radicale rinnovamento sociale che già si facevano sentire sulla costa tirrenica.

Erano queste le premesse ideali, culturali, spirituali, politiche che sorreggevano l’operazione avviata da Riccioni. Il mito di Shelley, “profeta del Liberato Mondo”, si proponeva di sostituire simboli e riti della tradizione – sudditanza, passività, inerzia – per sostituirli con un nuovo senso comune ed un nuovo immaginario collettivo fondati sulla conflittualità sociale, sul rifiuto delle antiche credenze, sulla volontà di affermazione e di riscatto degli oppressi.

A Riccioni questa idea del monumento e la considerazione delle sue implicazioni e della sua utilizzazione era venuta da un evento che tanta carica suggestiva aveva diffuso per l’Italia; la scopertura della statua Giordano Bruno in Campo de’ Fiori a Roma. A stimolarlo a procedere senza indugi interveniva quel forte senso di orgoglio civico che lo animava: toccava alla sua Viareggio seguire Roma nella strada della glorificazione dei martiri del Libero Pensiero che avevano preparato il risorgimento della nuova Italia. Che l’operazione del monumento a Shelley avesse avuto una genesi di natura politica era stato lo stesso Riccioni a dichiararlo in una lettera inviata alla rivista Germinal per rivendicare a sé ed al giornalista lucchese Pericle Pieri la paternità dell’idea del monumento: “ci balzò fuori una mattina d’estate del 1890 presso i giardini pubblici, lungo la via Garibaldi, ragionando di politica e d’arte”.

Del monumento Riccioni faceva una questione d’onore e per avere adesioni si rivolgeva in Italia ed all’estero, ma non sempre la sua insistenza veniva premiata. Da un personaggio “terribile” come Carducci riceveva una strapazzata con tanto di diffida. Meglio gli andava con Bovio, De Amicis e Rapisardi che lo approvavano e lo incoraggiavano come facevano Enrico Ferri e Felice Cavallotti che assumeva la presidenza del comitato onorario.

Un serio aiuto nell’ambiente locale gli veniva dal settimanale Il Figurinaio che si stampava a Lucca sotto la direzione di Carlo Paladini. Da questi veniva a Riccioni un messaggio che gli dimostrava come la sua iniziativa fosse condivisa: “Il monumento a Shelley non è solamente un ricordo al poeta: è anco un omaggio al riformatore. Vi è in questa nobile e generosa iniziativa di un monumento al bardo gentile, un palpito d’artista, un pensiero d’umana fraternità, un proposito di giovani ribelli che guardano all’avvenire”.

Ma l’apporto più consistente del giornale lucchese all’iniziativa di Riccioni doveva ancora venire. Nel numero del 21 agosto Il Figurinaio riprendeva integralmente l’articolo che pochi giorni innanzi Gabriele D’Annunzio aveva pubblicato sul Mattino di Napoli per celebrare il centenario della nascita di Shelley. Con la scesa in campo di D’Annunzio la definizione della “questione shelleyana” subiva una decisa accelerazione. D’Annunzio, da par suo, metteva le cose in chiaro: Shelley era da paragonare a Gesù: come Cristo “amò gli uomini d’eroico amore: E non soltanto amò gli uomini ma tutte le cose, tutte le trasformazioni della Vita e della Morte nell’Universo. Egli è veramente il poeta della universale bontà, dell’universale pietà, del perdono e della pace”.

C’era fin troppo per indignare i custodi della tradizione che prendevano a riguardare l’iniziativa di Ricconi come una manifestazione del peggior conio antireligioso. Di questo ambiente era portavoce l’Unità Cattolica che bollava Shelley con il marchio di “poeta satanico” e giudicava il monumento “un insulto, un’onta non solo per la fede e la religione degli italiani, ma eziandio per la loro storia artistica e letteraria. Quella statua è la glorificazione dell’ateismo, ma al tempo stesso segna il trionfo dell’imbarbarimento del nostro buon gusto, della nostra lingua, della nostra poesia. È un monumento antitaliano in più che sorge sovra il profanato suolo d’Italia”. A guardar bene dentro queste dinamiche conflittuali si coglie la sostanziale riuscita dell’operazione promossa da Riccioni. Proprio nella virulenza della polemica che dagli ambienti clericali si levava contro il monumento trovava forza l’intenzione di caratterizzarlo come l’occasione di coagulo quell’area occupata da personalità delle professioni di spiccato orientamento laico, ruotanti intorno alla loggia massonica, ed il vasto e ribollente universo popolare adesso investito da un processo di radicalizzazione politica ed alla ricerca di ancoraggi ideali. Era tra questa gente che si diffondeva il culto di Shelley. Era gente povera, di una povertà oggi inimmaginabile, che a stento riusciva a campare e tra questa gente l’anarchia ed il socialismo estremo avevano trovato un humus congeniale ed avevano fatto proseliti. Promettevano il paradiso a chi viveva l’inferno. I loro luoghi di socialità erano fiaschetterie, taverne, bettole che in quella Viareggio, odorosa di salmastro, resine, pece e catrame si aprivano l’una accanto all’altra. Cupe come la miseria di chi le praticava: qui il vino si mescolava ai propositi più incendiari ed incoraggiava i gesti più iconoclasti. Erano luoghi di vita e di memoria dove si ritrovavano vecchi e giovani: vecchi che raccontavano e giovani che apprendevano. Shelley era di continuo evocato e stava all’inizio del Grande racconto di Viareggio che aveva cominciato a prendere consistenza proprio nel tempo in cui sulla sua spiaggia era stato arso il corpo del Cuor dei Cuori.

Quella vicenda era entrata nella memoria collettiva della comunità che la considerava come uno di quegli eventi che provengono ed appartengono allo straordinario. E che si continuano a raccontare di generazione in generazione alimentando leggende, credenze, superstizioni: chi vi aveva partecipato non dimenticò mai quella scena carica di pathos. Ancora alla fine degli anni Ottanta, come verificava Guido Biagi impegnato nelle ricerche per il suo libri sugli ultimi giorni di Shelley, erano ancora vivi uomini e donne che avevano assistito alla “straccatura” ed al rogo allestito da Byron. E se ne ricordavano come se fossero avvenuti poco tempo innanzi. Una delle taverne più frequentate era consacrata al magnanimo titano celebrato da Shelley e per questa via assunto a simbolo della volontà di liberazione che si andava diffondendo. Per la sua fama si era procurata una facile strofetta che passava di bocca in bocca: Se ti da l’animo d’andar per vezzo vicino all’angolo di via di Mezzo vedrai l’insegna con la lanterna di Prometeo fatto taverna

(1 – continua)

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