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sabato, Maggio 18, 2024

Mario Tobino visto da vicino: storia di un’amicizia. Dall’incontro a Maggiano in cerca di Fellini ai libri in anteprima

Come testimonia l’autografo di Mario Tobino nella prima pagina della prima edizione Vallecchi di “Le libere donne di Magliano”, lo conobbi il 1° marzo 1954. Non fu un incontro casuale perché, avuta notizia che presso l’allora manicomio di Maggiano Federico Fellini era venuto appositamente – ospite del medico-scrittore – per conoscere di persona non solo l’autore ma anche l’ambiente descritto nel libro, che tanto lo aveva colpito per la sua immediatezza e la tragicità del contenuto. Aveva infatti intuito che poteva farne una trasposizione cinematografica.

Senza por tempo in mezzo – allora ero praticante dello scomparso “Il Giornale del Mattino” di Firenze – telefonai al centralino del manicomio chiedendo di poter parlare con Mario Tobino, appunto, per avere un incontro con lui e il suo già famoso l’ospite. Dopo una breve attesa, mi rispose personalmente dicendomi che purtroppo il regista era partito la mattina, ma che mi avrebbe incontrato volentieri per spiegarmi come era andata la visita.

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Dopo una breve attesa all’ingresso dell’ospedale, mi accolse sul portone e poi mi guidò nelle due stanzette che si aprivano su di un chiostro, dato che il nosocomio psichiatrico era stato prima un convento. Era in camice bianco e con un’espressione che indicava, al tempo stesso, una forte delusione e una malcelata soddisfazione. Più o meno queste furono le sue parole iniziali durante il breve tragitto e poi accogliendomi nelle due stanze (uno studio la prima, una camera da letto la seconda): “Arrivi tardi, perché Fellini è già partito piuttosto deluso, avendo constatato che il mio libro aveva un senso solo se letto, perché le ‘mie’ donne erano tali solo leggendole sul libro. Delusione e compiacimento allo steso tempo, perché queste ‘donne’ vive e credibili secondo lui era proprio impossibile trasferirle sullo schermo, tanto erano vere sulla carta stampata”. Poi ci fu un lungo colloquio sulla sua vita ospedaliera e sull’attività di scrittore, che in parte lo gratificava delle sofferenze che tutti i giorni lo circondavano e che costretto a lenire.

Ma questo incontro non ebbe ad essere il solo, perché ne seguì una lunga serie che periodicamente avvenivano prima nelle due stanze e poi, con la bella stagione, lungo il chiostro, dove con il camice svolazzante e la sigaretta in bocca mi prendeva sottobraccio e mi parlava, parlava. Non so perché, ma mi aveva preso in simpatia, visto che non mi peritavo di chiedergli delle due professioni e del suo modo di vivere, certamente inusuale. Tanto è vero che un pomeriggio mi permisi di entrare nel personale, constatato che fumava una sigaretta dopo l’altra, o quasi. Infatti mi permisi di chiedergli come mai fumava senza tregua. Questa fu la sua testuale risposta: “Primo perché durante il servizio non posso, poi perché mi rilassa e infine perché se non fumi la notte la salute non ne risente (poi dovette smettere per forza). Vuoi mettere una sigaretta dopo il caffè mattutino!”.

Ma a Mario Tobino sono debitore anche l’avere scoperto la bontà dei ranocchi fritti, di cui più volte mi aveva espresso l’inconfondibile bontà. Un pomeriggio che ero andato a trovarlo, mi disse che la sera mi avrebbe portato a cena da “Solferino”, un noto ristorante di San Macario in Monte, purtroppo ormai passato alla storia. Si diceva infatti che vi si mangiava e beveva molto bene. Dopo i soliti tortelli al sugo, arrivò infatti un enorme vassoio che conteneva un fritto misto che solo a vederlo era una bellezza. Lui, fra un bicchiere e l’altro, mi guardava con un sorriso beffardo mentre mangiavo con gusto, tanto è vero che poi esplose in una sonora risata e poi: “Ti sono piaciuti i ranocchi?”. A me che in altre occasioni avevo espresso il mio disgusto.

Poi ci fu incontro del tutto inatteso. Mi trovavo presso la Concessionaria Alfa Romeo di San Filippo, per una visita all’amico Mirio Mei, quando all’improvviso rombando entrò nel piazzale un’Alfa 2000 rossa con a bordo Mario Tobino scuro in volto. “Ci risiamo – disse più o meno l’amico Mirio – ma questa volta lo frego. E’ un mese che viene tutte le settimane perché sente un rumorino che non gli piace. E tutte le volte il meccanico gli dice che il motore è perfetto e lui riparte indispettito. Ora avviso il meccanico che gli dica che il guasto l’ha trovato, per cui può viaggiare del tutto tranquillo”. Con un sorriso a tutto tondo Mario Tobino, senza nemmeno salutarci, montò in macchina e se ne ripartì con la stessa velocità con cui era arrivato. Come a sentenziare che, appunto, aveva ragione lui.

Ma il fatto che più mi è rimasto impresso, soprattutto per il suo significato, fu quando nel 1963 uscì presso Mondadori una nuova edizione di “Le libere donne di Magliano”. Infatti alla redazione di Lucca de “Il Giornale del Mattino” era arrivata una telefonata da parte proprio di Mario Tobino che mi voleva vedere urgentemente. Entrato nelle due stanze che davano nel chiostro, si alzò dalla scrivania e mi offrì una copia del libro con una dedica già scritta. “Siccome ne hai scritto tanto di questo libro, te ne regalo uno di quelli che mi sono giunti personalmente prima di andare in libreria”. Era il 30 maggio 1963, come testimonia la data della dedica.

L’ultima volta che ho avuto occasione di parlare con Mario Tobino fu quando gli venne solennemente conferita la Cittadinanza Onoraria di Lucca. “Non so più se sono viareggino o lucchese. Ma va bene così”: queste le sue ultime parole rivolte al sottoscritto.
Mario Pellegrini

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