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sabato, Ottobre 5, 2024

Le problematiche legali dei matrimoni celebrati in Chiesa: per il diritto canonico è possibile annullarli se manca la volontà di avere figli

Riceviamo e pubblichiamo un’anticipazione del numero di marzo del periodico Leasing Magazine intitolata “Matrimonio in Chiesa:  per il diritto canonico è nullo se manca la volontà di avere figli”, dell’avvocato Alessandra Baldini di Viareggio che, in un precedente numero del periodico, aveva affrontato il tema della nullità del matrimonio, celebrato in Chiesa, quando vi è la prova dell’incapacità a contrarre matrimonio per grave difetto di discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente. Con questo articolo, il legale porta all’attenzione del lettore una diversa fattispecie che emerge dal seguente quesito:  se risulti la nullità del matrimonio per difetto di consenso per l’esclusione della procreazione. L’avvocato Baldini è iscritta all’Albo degli Avvocati del Foro di Lucca e all’Albo dei Patrocinatori presso i Tribunali Ecclesiastici. Dopo aver conseguito la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Pisa, ha conseguito altresì la Laurea e il Dottorato in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense di Roma. Da molti anni esercita presso i Tribunali Ecclesiastici competenti in tema di nullità del matrimonio.

Il predetto capo di nullità fa riferimento alla esclusione di un elemento o di una proprietà essenziale del matrimonio. Le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e indissolubilità. Gli elementi essenziali sono, invece, sia quei diritti e i doveri che costituiscono il bene dei coniugi, e senza i quali questo bene non si può realizzare, sia quelli che si riferiscono all’ordinamento del matrimonio, alla generazione e educazione della prole. Il vigente Codice Canonico, nel delineare la struttura giuridica dell’istituto matrimoniale, afferma che indole sua naturali – ossia per sua stessa natura, per la sua struttura all’interno dell’ordine naturale delle cose – l’istituto matrimoniale è orientato alla procreazione e alla educazione della prole (cf. can. 1055, § 1) e il suo oggetto è il dono di sé in vista della costituzione del rapporto matrimoniale (cf. can. 1057, § 2).

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Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «per sua indole naturale lo stesso istituto matrimoniale e l’amore coniugale sono ordinati al fine della procreazione e educazione della prole e da essi ricevono grande onore» (cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, 48). Anche il can. 1096 ripete: «il matrimonio è la comunità permanente tra l’uomo e la donna, ordinata alla procreazione della prole». Queste espressioni codiciali inducono a ritenere che vada intesa come oggetto principale della simulazione l’ordinazione naturale del matrimonio alla procreazione, la fecondità strutturale insita nel matrimonio e nella sessualità, in qualunque modo essa venga, di fatto, frustrata: con la negazione al coniuge di atti intimi; con la concessione al coniuge di atti intimi, ma non coniugali, perché programmaticamente contraccettivi; col proposito di ricorrere all’aborto in caso di gravidanza, oppure di sopprimere i nati, anche abbandonandoli a se stessi. Produce la nullità del matrimonio non qualsiasi abuso nell’esercizio della sessualità, oppure qualsiasi mancanza di responsabilità verso la vita concepita o nata, ma solo l’esclusione di principio della fecondità strutturale del matrimonio e del diritto del coniuge agli atti che vi corrispondono.

L’Avv. Alessandra Baldini fa rilevare che difficile può essere distinguere il semplice rimando della prole dalla vera esclusione temporanea di essa. Chi rimanda, accetta per sé e in linea di principio la prole e la vuole differire solamente per un certo tempo (per esempio per i primi due o tre anni di matrimonio), propenso però ad accoglierla, se venisse, e usando normalmente mezzi leciti per procrastinare la procreazione: ciò facendo non si nega in linea di principio l’orientamento alla procreazione del matrimonio, né quanto al fine né quanto ai mezzi. Chi, al contrario, la esclude, anche temporaneamente, nega invece per principio la venuta della prole nel tempo stabilito e non riconosce il diritto del coniuge di chiedere, nel frattempo, atti di per sé fecondi, per lo più utilizzando, sul piano di fatto, mezzi contraccettivi ad alto tasso di sicurezza (indipendentemente dalla loro ammissibilità morale) e, talvolta, nemmeno escludendo l’eventualità di interrompere una gravidanza accidentalmente originatasi.

Così non è sempre facile distinguere il rimando della procreazione dall’esclusione cosiddetta condizionata di essa. Chi semplicemente rimanda la prole si limita a decidere di volerla dal matrimonio, ma la ritiene al momento presente non opportuna chi, invece, la esclude condizionatamente, stabilisce di non volere figli al momento, ma si riserva di cambiare idea quando si sarà verificato un certo fatto che per lui ha valore di “condizione” per aprirsi alla procreazione, come potrebbe essere il conseguimento di una certa posizione economica, l’accertamento di un buon andamento del matrimonio, oppure l’abbandono da parte del coniuge di un’abitudine che si ritiene pericolosa o dispendiosa. Nel rimando appare piuttosto chiaramente l’accettazione della prole, la disponibilità a rispettare la struttura del matrimonio e dell’atto coniugale, pur col desiderio di rinviare il fatto del concepimento; nell’esclusione condizionata prevale invece la negazione attuale dell’ordinazione del matrimonio alla fecondità, praticata con mezzi spesso immorali.

L’ordinazione del matrimonio alla generazione e alla definizione della prole definisce in astratto soltanto una delle proprietà o degli elementi dell’istituto matrimoniale. Dal can. 1061, § 1 si arguisce che l’ordinazione del matrimonio alla fecondità comprende, in concreto, il diritto e il correlativo obbligo ad un «atto coniugale per sé idoneo alla generazione della prole, al quale il matrimonio e ordinato per sua natura, e per il quale i coniugi divengono una sola carne». La prole può mancare, di fatto, senza che la vita coniugale perda della sua grandezza (cf. can. 1084, § 3). Si afferma, inoltre, che l’esclusione della prole deve essere, perché renda nullo il matrimonio, perpetua e assoluta, il che è confermato sia dal Concilio Vaticano II (cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Gaudium et spes, 51), sia dalla lettera enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che riconosce e definisce la paternità consapevole (cf. coram De Jorio, decisio diei 28 maii 1969, in RRDec., vol. LXI, p. 358, n. 4). Se la generazione è differita nel tempo, rimandata cioè a quando vi sia una migliore condizione economica o il vivere coniugale, attraverso l’esperienza, sia ritenuto felice, non sembra che la legge, l’obbligazione agli atti coniugali e l’esercizio dell’obbligo del diritto rimangano esclusi. Inoltre, in una sentenza rotale, si e evidenziato che il puro consenso dei nubendi circa la prole da evitare per qualche tempo, al quale nel processo matrimoniale talvolta si dà il nome di “patto”, non comporta una ferma e assoluta volontà delle due parti di escludere la prole e perciò tale consenso non limita né rende nullo il matrimonio (cf. coram Stankiewicz, decisio diei 20 aprilis 1989, in RRDec., vol. LXXXI, p.286, n.11).

La quotidiana esperienza insegna che non raramente i nubendi si accostano all’altare con deliberato proposito di evitare la procreazione della prole nei primi anni della vita comune. Molto frequentemente si verifica che, durante il convivere coniugale, questo proposito per causa successiva si cambia in volontà di respingere del tutto e per sempre la procreazione della prole. In nessun modo è lecito dubitare della validità del matrimonio. Infatti, al momento della celebrazione il consenso era giuridicamente valido, esclusa la prole per un certo tempo. Una volta legittimamente posto, il consenso produce l’effetto – cioè il matrimonio in facto esse – che esiste indipendentemente dalla volonta posteriore dei coniugi. Pertanto il cambiamento di volontà non può cancellare il vincolo che ha tratto la sua efficacia dal consenso giuridicamente espresso. Nel vigente Codice il contenuto del bonum prolis può essere specificato come diritto-obbligazione all’atto propriamente coniugale, idoneo per la generazione, realizzato in modo umano, insieme al diritto-obbligazione all’educazione. Di conseguenza, se uno o entrambi i contraenti, nel momento di consentire escludono il diritto all’atto coniugale, o lo concedono soltanto per un tempo determinato, o hanno il fermo proposito di evitare perpetuamente la generazione mediante metodi contraccettivi, contraggono invalidamente.

Da quanto detto, si comprende come, supposta l’esistenza della reciproca donazione-accettazione del diritto agli atti per sé idonei alla procreazione, ovvero del bonum prolis, nel momento del consenso matrimoniale (o matrimonio in fieri), la validità non e compromessa se, ad esempio, uno dei coniugi nel matrimonio in facto esse limitasse l’uso del diritto agli atti coniugali per evitare altri figli secondo i principi di una procreazione responsabile, perché ci troveremmo soltanto di fronte ad una limitazione dell’esercizio del diritto e non ad una esclusione o limitazione dello stesso diritto. La distinzione tra “esclusione del diritto” e “esclusione dell’esercizio del diritto” può risultare di ardua individuazione, richiedendo di esaminare, oltre ai motivi, le circostanze del caso. In detta valutazione, la giurisprudenza si serve di alcune presunzioni e di alcuni criteri, tra i quali uno riguarda lo svolgimento della vita intima, in quanto le cautele antiprocreative sistematicamente utilizzate contro le richieste esplicite dell’altro coniuge o, comunque, prese di comune accordo, dimostrano che viene escluso ogni diritto.

Perciò, l’esclusione del diritto alla prole si avvera quando il contraente «intendat vel in perpetuum vel pro determinato vel indeterminato tempore vel hypothetice et condictionate se abstinere omnino ab actibus per se aptis ad prolis generationem humano modo positis, ius ad eos denegando» (cf. coram Palestro, decisio diei 29 decembris 1986, in RRDec., vol. LXXVIII, p.78, n,7). II positivo atto della volontà con cui si esclude il bene della prole, non risulta da un’intenzione o una volontà abituale, che non danno inizio al consenso e non qualificano di per sé un atto, né da una volontà generica che di fatto e definitivamente non tocca un matrimonio già stabilito, né da idee più volte espresse anche nei discorsi prematrimoniali, cioè che i figli portano grandi fastidi, che tolgono la libertà o la soffocano, che un matrimonio felice non esige i figli, che l’età adulta o una salute delicata non sopporta i figli, etc. Una positiva volontà non si esprime con la manifestazione di un desiderio o di propensioni, ma attraverso una limitazione del consenso, cioè attraverso una positiva e chiara restrizione delle parole nel proferire il consenso. Dunque celebra un matrimonio valido chi, senza una condizione espressa o un positivo atto della volontà esclude la prole (cf. coram Funghini, decisio diei 17 febraurii 1998, in RRDe., vol. LXXX, p.107, n.2).

In ordine alla prova, perché si possa dichiarare la nullità del matrimonio, bisogna dimostrare che uno dei coniugi nel celebrare il matrimonio, abbia negato veramente all’altra parte il diritto di usare del suo corpo, il diritto, appunto, ad un’unione ordinata a generare la prole. Se l’esclusione è compiuta attraverso un patto o una condizione, più facilmente si evince la nullità del vincolo, specialmente quando le parti e i testimoni, della cui credibilità non si deve dubitare, a una sola voce depongono sull’assoluta e perpetua esclusione della prole e anche le loro parole convengono con i fatti, o con le circostanze note e provate da altre fonti. Tutto ciò è confermato se il simulante ha una personalità che manifesta, nell’agire, dubbi e ansietà, se non è sufficientemente edotto circa gli insegnamenti della Chiesa sul matrimonio e se esiste una grave e proporzionata causa. La causa non deve essere puramente contingente. Quando infatti si tratta di una causa temporanea, come la difficoltà di ordine economico all’inizio della vita coniugale, oppure il desiderio di vivere senza preoccupazioni nel tempo iniziale del coniugio, il peso di essa è molto attenuato, anzi svuotato, perché l’esclusione veramente assoluta si arguisce se la causa dell’esclusione è perpetua. Nel valutare la causa dell’esclusione, bisogna fare attenzione non ai cambiamenti che per caso verranno dopo l’atto del consenso, ma alla fermezza della volontà che si determina hic et nunc. La prova dell’esclusione deve essere raggiunta sia attraverso argomenti diretti, con i quali si ricostruisce la volontà simulatoria al momento del matrimonio, anche tramite testimoni, ed in cui si sostanziano la confessio iudicialis del simulante e quella extragiudiziale riferita dai testi degni di ogni fede, sia attraverso argomenti indiretti, e specificamente la causa simulandi, la causa contrahendi e le circostanze antecedenti, concomitanti e susseguenti. Particolarmente importante la causa simulandi, la cui forza probante deve scaturire dalla considerazione della motivazione addotta e comprovata dai testi, in maniera che sia grave e prevalente sulla causa contrahendi. La prevalenza della causa simulandi va ponderata tenendo conto della causa del consenso e di tutte le circostanze di tempo, di luogo, di persone, come pure del comportamento pre e postnuziale del simulante, e della sua credibilità.

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