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venerdì, Aprile 19, 2024

Il “caso” Mario Marcucci. Adolfo Lippi analizza l’evoluzione del mondo e del mercato dell’arte

La concezione dell’arte e i mutamenti sia del mercato che del collezionismo sono le tematiche al centro dell’articolo scritto dal giornalista e regista Adolfo Lippi per il il prossimo numero di “Leasing Time Magazine”, il mensile di economia, finanza e cultura diretto da Gianfranco Antognoli.  Nell’articolo – intitolato “L’arte delle cose”, che riceviamo e pubblichiamo in anteprima – Lippi ricorda anche la figura del pittore viareggino Mario Marcucci, scomparso trent’anni fa e oggi poco conosciuto nonostante la sua grandezza.

L’arte è ancora un mercato fiorente. Alle aste di “Sotheby’s” o “Christie’s” (si parla di Londra), mercanti americani, giapponesi, arabi, perfino russi, ancora si scontrano a colpi di milioni di dollari su Picasso, gli impressionisti francesi, Mondrian, Magritte. Epperò gli italiani figurano solo se hanno date rinascimentali. Che so, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio. Non vi è mai un moderno, nemmeno Morandi che pure gode di una certa fama internazionale. Per non parlare della caduta di certi nostri astri novecenteschi, come Rosai, Mafai, Guttuso, che negli anni Cinquanta vendevano per centinaia di milioni e oggi, in euro, valgono davvero la metà.

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L’arte fa ancora parlare. Jasper Jones ha un patrimonio di 300 milioni di dollari, Jeff Koons (ex marito di “Cicciolina”) di 500 milioni, Damien Hirst di un miliardo. Ma in provincia, da noi in Italia, quello che fino agli anni Sessanta era considerato un patrimonio (vedi Sironi o Severini o Scipione) lo si compra con cifre modestissime e la generazione successiva, da Schifano a Tano Festa a Franco Angeli, pur meritando onori e fama, va nelle principali collezioni a ribasso. Perché è profondamente mutato il rapporto tra arte figurativa e società. Perché, oramai, sebbene l’opera d’arte, come ben scrive Massimo Recalcati (“Il mistero delle cose”, Feltrinelli ed.) intrattenga un rapporto con l’assoluto, con il reale, con l’impossibile, l’artista è anche diventato una “posa di massa”, i pittori sono milioni, nessuno ne scrive più le cronache sui più diffusi quotidiani, tutti dipingono ma quelli che fanno discutere sono personaggi, come il provocatore Alfredo Cattelan che si dedica a decorare ampi spazi milanesi, oppure fanno teatro del proprio corpo nelle Biennali e nei musei.

Una volta, fino agli anni Cinquanta del passato secolo, la gente, stanca del lavoro o del passeggio da flaneurs nelle passeggiate di città, si rifugiava in salotto, si sdraiava sul divano, contemplava un quadro alla parete. Attraverso il quadro ritrovava descrizioni di natura, oasi di riflessione, momenti di poesia.

Oggidì la gente trascorre almeno quattro ore al giorno davanti al computer, due ore a cliccare sul cellulare, tre ore allo schermo della televisione. I nostri occhi sono abbindolati e distratti dalle immagini. Chi ha più voglia di guardare un quadro? Sono poi cambiati gli spazi di casa. Le pareti di cemento sostituite da pareti di vetro. E nel vetro non si piantano chiodi per appendere opere d’arte. Accade allora che il pubblico quando vuole ancora imbattersi nell’arte va direttamente nei musei e nelle gallerie. Non compra più o compra davvero poco. Invece comprano e molto gli investitori finanzieri che riempiono i caveau delle banche di quadri e sculture da smerciare ai padroni dei musei internazionali, arabi, russi, perfino cinesi, poiché il museo è un richiamo come i ristoranti a cinque stelle o le navi da crociera, o i villaggi vacanze a Doha o nel Dubai. Di recente ho scritto la biografia di un celebre pittore viareggino, scomparso trent’anni fa. Si chiamava Mario Marcucci, era intimo amico dello scrittore Mario Tobino, negli anni Sessanta i suoi quadri si vendevano per decine di milioni della lira di allora. Di Marcucci, che aveva perfino vinto un Premio Bergamo del ras fascista Bottai, hanno scritto tutti i maggiori intellettuali del tempo, da Moravia a Roberto Longhi, da Mario Luzi a Cassola. Insomma a Roma, a Firenze, a Milano, capitali dell’arte, era proprio “qualcuno”, rispettato, cercato, valorizzato. Parlare di lui ai tempi nostri è divenuto elitario. Ma il medesimo discorso si può fare per altri “maestri”, vedi Omiccioli, Tamburi, Sughi, Vespignani, Calabria, Guidi, tanto per citare alcuni che assieme a Guttuso brillarono per decenni, dal dopoguerra all’avvento smodato della televisione. Dove sono finiti?

Se uno va alla Biennale di Venezia, o va a Basilea, o va a Miami, dove si svolgono mercati e aste internazionali, s’avvede che l’arte è diventata un’altra cosa. Resistono Picasso o Francis Bacon, ma la rivoluzione che lanciò “l’oggettista” Duchamp negli Stati Uniti negli anni Quaranta, ha fatto proseliti ovunque. Sicché anziché dipingere, faccio un esempio, delle damigiane basta metterle così come sono al centro di una stanza e i critici smammolano per l’emozione. Per non parlare delle luci, neon o lampadari, che oramai fanno arte anziché illuminazione di consumo.

Chi si può ancora occupare d’arte, cito l’esempio del noto psicanalista Recalcati, studia come l’arte si occupi sostanzialmente del “mistero delle cose”. Soltanto, vedi un artista come Kounellis, anziché dipingerle le cose, le colloca così come sono: capre, cavalli, mucchi di stracci, carboni. Ed artisti come Murakami, Banksy, Hockney che ciò fanno, sostanzialmente dimenticano Marcucci che era il pittore dei poeti.

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